la Croce dalle sette pietre

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Voto:

Al povero impiegato di banca Marco (Antonio Andolfi) viene scippata una catena gemmata che lo preserva dal diventare, nelle notti di luna piena, una sottospecie di uomo-lupo satanico. Nel cercare di recuperare la preziosa collana, Marco s'imbatterà nel crimine organizzato che cercherà di eliminarlo. I camorristi, però, non sanno che Marco può mutarsi in un mostro.

LA RECE

Cult di casa nostra nella categoria super-trash. Film talmente brutto da risultare perlomeno simpatico. Sconsigliato solo a chi non sa cosa stia per vedere.

Opera prima di Andolfi che, grazie ai fondi a sovvenzione delle opere cinematografiche, riesce a mescolare horror, eros e mafia-movie; sarebbe interessante conoscere, almeno in quest'occasione, le logiche seguite dal Ministero nell'attribuzione dei circa 150 milioni delle vecchie lire spesi, vedendo il risultato, non si capisce come. Sappiamo, invece, che Andolfi trasse ispirazione da un fattaccio occorsogli in quel di Napoli, città nella quale venne scippato di una collanina: leggenda narra che fosse in compagnia di una ragazza, la quale scappò impanicata perché la scena dello strappo fu abbastanza cruenta e, ben più doloroso per il bell'Antonio, non si fece mai più viva. È evidente, guardando la Croce dalle sette pietre, come sia meglio non produrre film in condizioni di stress post-traumatico. La pellicola, la cui morale è "Gesù Cristo e il Demonio, l'eterna guerra mascherata tra il Bene e il Male", viene ritenuta da più parti il peggior horror italiano mai realizzato e, in effetti, questo film è così mal fatto in ogni sua minima parte che non è possibile estrapolarne un segmento per portarlo a divertito esempio di inettitudine. Al di là del basso budget e di un soggetto filmico chiaramente sfortunato che vede un licantropo alle prese con la camorra, il buon Andolfi pecca di scarsa umiltà e si carica addosso a mulo praticamente tutti i ruoli: regista, interprete in più di un ruolo, montatore, sceneggiatore, doppiatore di sette personaggi, stuntman e finissimo effettista, per creare un mostro ispirato, dice, alle maschere della mitologia greca. Esoso, soprattutto, nell'attribuirsi il ruolo di protagonista, dato che non sapeva recitare; Andolfi ha un'unica espressione e, quando digrigna i denti, è ridicolmente assurdo. Non si capisce come, né desideriamo saperlo per rispetto alla memoria, ma in questo tombino precipita Robert Mitchell, il quale non che fosse un attore di spessore ma aveva, comunque, un curriculum decoroso con partecipazioni quali il Satyricon (1969) di Fellini. Presente all'appello anche la regular dei film partenopei Annie Belle (l'Ammiratrice, 1983) la quale, pur bella, coerentemente con l'impianto generale si presenta con la freschezza di una che abbia dormito una settimana in roulotte. Gli altri "attori" spero vivamente siano stati presi dalla strada con spirito pasoliniano. Parallelamente a un gruppo di interpreti senza giustificazioni, abbiamo soluzioni tecniche che superano di misura il termine trash: tempi di recitazione sbagliati, inquadrature pessime, montaggio da filmino delle vacanze, orribili flashback, effetti sonori d'infima qualità, vergognose scene erotiche, nomi da Bagaglino tipo Totonno 'o Cafone, e finezze in sceneggiatura quali: "Raffaele della mia minchia" e l'evergreen "San Gennaro, aiutaci tu!". Insomma, la Croce dalle sette pietre è un trash di dimensioni ciclopiche, il che l'ha fatto meritatamente assurgere a cult nazionale e il file sharing ha permesso la ridiffusione di una pellicola il cui destino sarebbe stato l'oblio nella Gora dell'Eterno Fetore. Che, poi, il lavoro di Andolfi sia davvero il peggior horror mai girato in Italia, rimane una questione aperta: può forse essere considerato tale da un punto di vista tecnico e, comunque, prima che comparissero miriadi di lavori amatoriali realizzati grazie alla diffusione di handycam economiche; di certo non è l'horror più brutto nel senso di antipatico, noioso, saccente. La simpatia intrinseca di un prodotto di così basso livello, secondo la logica del so bad so good, lo eleva subito al rango di imperdibile. I Giapponesi, tra l'altro, pare che abbiano talmente gradito da distribuirlo col titolo the Cross of seven jewels e il successo estero non si è fermato al Paese del Sol Levante; subodorato il business, il regista rimontò tutto aggiungendo altre scene e filmati sulla guerra in Bosnia perché, sappiatelo, Aborym è il male assoluto che tutto contamina, quindi anche i conflitti bellici. Il voto per la Croce dalle sette pietre è un punto d'incoraggiamento. Segue, venti anni dopo, l'ineffabile Riecco Aborym (2007).

TRIVIA

Marco Antonio Andolfi (1941-2018) dixit: "Siccome era il mio primo film e venivo dal teatro, ero considerato un incapace, un fissato capace solo a buttare soldi. Tutti si sentivano in dovere di cercare di fare i lavativi, di fare allusioni, di rubare e altre meschinerie. Non sapevano che avevo il braccio forte, ero capace di dirigere mille persone come un generale di ferro. [...] Poi ci si metteva pure la mafia cinematografica della distribuzione, del doppiaggio, delle comparse, e anche la mafia degli stabilimenti di sviluppo e stampa. Dovevo fare tutto io, ero presente ovunque. Volarono schiaffi e denunce penali, mi aiutava il fatto di avere un fisico possente" (cinewalkofshame.wordpress.com).

⟡ Marco Antonio Andolfi è deceduto 14 dicembre 2018. 

⟡ Per i fan più sfegatati di Andolfi, segnalo la sua presenza come attore nel bizzarrissimo film underground di Alberto Genovese Dolcezza extrema (2015).

Regista:

Marco Antonio Andolfi

Durata, fotografia

88', colore

Paese:

Italia

Anno

1987

Scritto da Exxagon nell'anno 2005; testo con licenza CC BY-NC-SA 4.0

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