Pochi temi hanno esercitato un fascino così persistente quanto la rappresentazione degli alieni, presenze cosmiche che, come suggerito da Mark Jancovich in "Rational Fears: American Horror in the 1950s", incarnano "l'ultimo grande Altro dell'immaginario occidentale". La loro rappresentazione oscilla tra poli opposti: dalla forma rassicurante antropomorfa di Contact (1997), film nel quale Jodie Foster incontra suo padre come interfaccia di comunicazione aliena - "la domesticazione dell'inconoscibile" (S. Sontag) - fino alla biomeccanica lovecraftiana dello xenomorfo di Alien (1979), che H.R. Giger ha concepito come un incubo sessuale industrializzato. Un approccio diverso ancora è quello rappresentato da Arrival (2016), con cui Denis Villeneuve ci presenta esseri che comunicano attraverso ideogrammi circolari di inchiostro nebulizzato, decollocando il logos dall'umano all'alieno e attribuendogli il potere fantascientifico di dire cose future; in realtà, quindi, recuperando uno dei grandi miti umani legati al divino, ovvero quello del messaggio sibillino e vaticinante, perciò alieni come dèi o semi-divinità. Il paradigma di questa visione divina o angelica dell'alieno è rappresentato da Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), promessa di trascendenza cosmica che sembra rispecchiare anche il nostro anelito di una vita di beatitudine dopo la morte; Non è un caso che Spielberg li rappresenti attraverso giochi di luce e musica, creando quella che il critico Michel Chion definisce "una sinfonia audiovisiva del sublime". Ma l'entità aliena spesso non è così saggia e benevolente. Le creature che ci fagocitano o ci dissolvono - pensiamo a la Cosa (1982) di Carpenter - interpretano le nostre fantasie più arcaiche di dissoluzione del Sé, ridisegnando una sorta di terrore cosmico, prossimo a un Male assoluto di matrice quasi mistica, religiosa, infernale. Il cinema alieno, quindi, poggiando su piani fantasy, sci-fi o orrorifici, può alternativamente assumere forme tanto terrificanti quanto meravigliose. Ovviamente, almeno fintanto che davvero noi umani non si entri in contatto con E.T., ogni speculazione su di essi funziona come specchio deformante della nostra natura, in ciò riflettendo paure contemporanee, riportando il viaggio verso le stelle, ad un'esplorazione in noi stessi. O, forse, come suggerisce la linguista e filosofa Julia Kristeva, l'alieno non è che la proiezione della nostra stessa "inquietante estraneità", quel nucleo di alterità che ci abita e che un film non fa che materializzare sullo schermo. Il cinema contemporaneo continua a utilizzare l'alieno come prisma attraverso cui rifrangere questioni di identità, appartenenza e differenza, rammentandoci che "l'alieno è sempre stato qui, dentro di noi, nelle nostre paure e nei nostri desideri più profondi" (Vivian Sobchack).
Linguaggio potenzialmente rivoluzionario, lungi dall'essere un medium esclusivamente riservato all'infanzia, l'animazione è capace di affrontare tematiche complesse e profonde con una libertà artistica unica. I progetti di animazione - che si tratti di disegno a mano, tramite un digitale d'avanguardia o per mezzo dello stop-motion - possono diventare veicoli straordinari per esplorare argomenti maturi e complessi. Sessualità, morte, guerra e violenza trovano nell'animazione uno spazio di rappresentazione particolarmente efficace, benché spesso silenziato o marginalizzato dai prodotti mainstream d'animazione diretti ai più giovani. D'altra parte, poiché svincolata dai limiti della ripresa dal vero, l'animazione può astrarre e simbolizzare concetti complessi, permettendo una narrazione più metaforica e profonda, superando la documentazione letterale, creando mondi alternativi che funzionano da specchio critico della realtà umana. L'animazione, insomma, fin dai tempi dei pionieri James S. Blackton (the Haunted Hotel, 1907) o Emile Cohl (Fantasmagorie, 1908) può essere uno straordinario mezzo di comunicazione per un pubblico adulto, e perché no anche giovane, capace di toccare le corde emotive più profonde e raccontare storie complesse che il cinema tradizionale fatica a rappresentare.
Il cinema esotico-avventuroso rappresenta un'interessante intersezioni tra il desiderio occidentale di alterità e la sua perpetua reinvenzione dell'ignoto. Come osservava acutamente Edward Said in "Orientalism", questo genere cinematografico ha spesso operato come un teatro dell'immaginazione coloniale in cui l'esotico diventa simultaneamente oggetto di terrore e desiderio. Dalla golden age hollywoodiana di King Kong (1933), fino ai più recenti e dinamici rappresentanti del genere, questo filone cinematografico ha saputo tessere una trama complessa grazie alla quale l'avventura si tinge spesso di sfumature horror e mystery. Le opere seminali di Val Lewton per la RKO, in particolare Ho Camminato con uno Zombie (1943) e l'Isola degli Zombi (1943) hanno dimostrato come l'esotismo possa fungere da ponte tra il thriller psicologico e l'horror soprannaturale, trasformando "il paesaggio esotico in uno stato mentale, dove l'alterità geografica diventa metafora dell'alterità psichica" (Kim Newman). Dal ciclo italiano dei Mondo movies degli anni '60, fino a opere più sofisticate come Apocalypse Now (1979) di Coppola, l'esotico nel cinema ha sempre mantenuto "una qualità uncanny", per cui il familiare e lo straniante s'appaiono seduttivamente e repulsivamente; film nei quali, come suggeriva ironicamente Werner Herzog durante le riprese di Fitzcarraldo (1982): "la giungla non è solo un luogo geografico, ma uno stato dell'anima". Dal mystery coloniale, allo zombesco, dall'erotico-esotico con trama thriller o gialla, al più classico avventuroso con i dinosauri mossi da Harryhausen in stop-motion, questo genere continua a reinventarsi, regalandoci sempre pericoli e mostri da temere, quando, in effetti, ciò che dovremmo temere, come diceva il dottor Moreau, è la nostra fascinazione per essi.
Il cinema d'azione va oltre la definizione tradizionale di genere. Piuttosto che essere classificato come una categoria rigidamente definita, esso si configura come una qualità trasversale che può arricchire e vivacizzare diverse tipologie di narrazione cinematografica. La sua peculiarità principale risiede nella priorità accordata all'aspetto visivo e spettacolare della messa in scena, piuttosto che alla quota narrativa a situazioni dialogiche o riflessive. L'action cinema punta principalmente a coinvolgere lo spettatore attraverso un'esperienza visiva intensa nella quale la dinamicità diventa il principale veicolo di comunicazione ed emozione. Quindi, vengono enfatizzate sequenze dinamiche sia per gli accadimenti descritti (corsa in automobile, inseguimento, ...) sia tramite il montaggio (abbassando l'Average Shot Length, la lunghezza media di ripresa), con riprese elaborate, coreografie di movimento, sovente in sinergia con un plot thriller che aumenta la tensione emotiva dello spettatore. Ciò implica un ridimensionamento di alcuni elementi narrativi classici. Come detto, i dialoghi diventano più funzionali all'azione, la profondità psicologica dei personaggi è spesso sacrificata in favore del movimento e dell'impatto visivo. L'action cinema può quindi essere inteso come un "modulatore di genere", capace di inserirsi e arricchire narrazioni drammatiche, comiche, horror o di altra natura, conferendo loro una dimensione di immediatezza ed energia.
Sottogenere noto anche solo come Backwood o Backroads. La società divisa fra modernità e un lato primitivo e demente collocato a distanza dalla civiltà urbanizzata. Ma non si tratta solo di una questione geografica e logistica; il Backwood tratta anche di un'istanza "scotomizzata" - denegata e relegata nel buio della provincia - della civiltà stessa, il suo uguale e contrario, la sua Ombra. Questo sottogenere del thriller (un Tranquillo weekend di paura, 1972), ma soprattutto dell'horror (Non aprite quella porta, 1974), finisce sempre per fare incontrare le due istanze contrapposte, moderno vs rustico, prossimo vs remoto, e, quasi come l'incontro fra materia e antimateria, le due polarità finiscono per annichilirsi. Il gruppo che vive a distanza dallo status quo, non è solo ignorante e provinciale, ma funziona secondo paradigmi regressivi e perversi-polimorfi: incesto, cannibalismo, dipendenza, scarsa cura del sé, funzionamento mentale limite, amoralità. Nell'incontro fra le due fazioni, tuttavia, le caratteristiche della più regressiva vengono proiettate sulla moderna, riportandola ad una condizione ferina, mai il contrario. Nel tempo, questo genere filmico ha perso la sia cifra sociologica a vantaggio dello splatter; tuttavia, alcuni moderni epigoni (Calvaire, 2004) riescono ancora a cogliere il brutale confronto fra le due diverse istanze dell'essere sociale, che poi è estensione dell'essere dell'individuo, in ciò recuperando l'antico e drammatico agonismo fra istinto e ragione (Dr. Jekyll and Mr. Hyde, 1931).
Affascinante sottogenere cinematografico che esplora le nostre più profonde angosce circa l'integrità della forma e delle funzioni del nostro corpo, funzioni e forma che il body horror mette in discussione attraverso una serie di processi di deformazione, mutazione e destrutturazione anatomica. Il body horror si distingue per la sua capacità di evocare reazioni intense, spesso associata a disgusto e repulsione; non si tratta solamente di shock visivo ma di una narrativa connessa alle nostre ancestrali paure legate alla contaminazione e a quell'integrità fisica che risponde direttamente ad un'integrità dell'Io. Quindi, disfacimento del corpo equivale a difacimento dell'essere e perdita del sé, una delle più profonde e arcaiche angosce umane. Il corpo, tradizionalmente percepito come un territorio stabile e definito, diviene la principale tela su cui si dipinge l'orrore, diventa paesaggio mutevole, qualcosa in costante negoziazione (come, di fatto, è), instabile e imprevedibile; la mutazione è, come detto, perdita di controllo, disgregazione identitaria, minaccia d'alterazione incontrollata. Registi come David Cronenberg e Shinya Tsukamoto hanno dato lustro a questo genere e fatto del body horror un linguaggio cinematografico capace di esplorare i confini tra tecnologia, biologia e identità; il corpo si fa terreno di sperimentazione in cui i limiti tra umano e non umano si dissolvono. Sottogenere virulento del body horror, è il Melt movie (★), apice estremo di questa poetica del danno anatomico. Nei melt movies, il corpo non solo si trasforma sotto l'azione di sostanze chimiche o altro, ma letteralmente si liquefà, perdendo i suo conseueto disegno anatomico; lo scioglimento, quasi come si trattasse di una psicosi, elimina una sagoma precisa, un involucro che possa definirci, e ciò che è, di norma, interno invade l'esterno e viceversa. L'angoscia del body horror è, nel melt, esasperata; una categoria filmica non frequentatissima ma che provoca una reazione viscerale, anchesì divertita se l'orrore si unisce ad un ironico grottesco, un disagio che va oltre l'orrore superficiale.
Categoria di film, fra i quali soggiornano parecchi "teen-movies", che si svolgono nei luoghi dell'educazione, o dell'aggregazione giovanile, e ne fanno teatri di terrore esistenziale. Come nota Carol J. Clover nel suo "Men, Women and Chain Saws", questi film cavalcano la tensione tra l'apparente sicurezza dell'istituzione scolastica e il caos che si cela dietro la facciata del vivere civile. Dagli inquietanti corridoi di Suspiria (1977) di Dario Argento, in cui entriamo in scuola di danza che diventa il palcoscenico per un sabba stregonesco e ipercromatico, arrivando fino alle aule insanguinate di Cherry Falls (2000) nelle quali la verginità è presagio di morte, il cinema ha trovato nelle istituzioni educative una sorta di surrogato della famiglia disfunzionale che ospita educatori pericolosi o altri tipi di mostruosità e orrori. Oppure, inversamente, i corridoi scolastici diventano territori d'esplorazione di un mondo esterno alla famiglia, luogo sicuro per eccellenza, pericoloso e specchio di paranoia sociale. Impossibile non citare Carrie - Lo sguardo di Satana (1976) di De Palma, forse l'archetipo definitivo del genere, per il quale il liceo diventa una metafora del purgatorio adolescenziale, o the Faculty (1998), che trasforma la paranoia del corpo docente in una letterale invasione aliena. In questi film, le biblioteche diventano labirinti di terrore e gli spogliatoi obitori, e tutto ciò che il sistema educativo cerca di contenere e controllare, inevitabilmente, sfugge e ammazza. I camping horror sembrano, d'altra parte, non dare tregua alla giovane popolazione tipica di questo genere cinematografico: anche il momento dello svago e del tempo passato con i coetanei diventa occasione di pericolo mortifero. Il campeggio rappresenta uno spazio liminale particolarmente fertile per l'immaginario collettivo: giovani adulti tornano temporaneamente a una dimensione pre-sociale, lontani dalle convenzioni urbane, ma proprio questa libertà scatena il terrore. Spesso, l'isolamento fisico del campeggio dissolve le gerarchie sociali tradizionali, creando nuovi equilibri di potere che spesso si rivelano fragili e pericolosi. La minaccia esterna, il killer slasher nascosto nella boscaglia, funziona come catalizzatore di comportamenti atavici nelle sue vittime, rivalendo quanto sia sottile il rivestimento della nostra civilizzazione, sia quanto sia grande la nostra paura di perdere il controllo razionale.
La categoria qui riportata propone l'aggregazione di due generi di horror, in effetti, ben diversi nella forma e nella sostanza, benché entrambi focalizzati sulla descrizione di un qualche comportamento od usanza cannibaliga. Il genere cannibal propriamente detto, qui meglio segnalato dalla stellina ★ a lato dei film, è relativo a quegli horror esotici emersi con Il Paese del sesso selvaggio (1972) di Lenzi, schegge impazzite del genere avventuroso, addizionati da suggestioni derivate dal genere Mondo e Shockumentary, che vedono lo scontro fra civilizzati e società tribali (cfr. con genere "Backwood brutality"). Queste ultime, non di rado vilipese dagli occidentali, scatenano una primitiva vendetta su di essi espressa con brutali atti di sevizia ed antropofagia, reincorporando forzosamente il moderno nell'atavico; tutto ciò, addizionato con gravi e grevi pennellate splatter, erotiche e di esecrabile violenza sugli animali. I cannibal non-classic, invece, sono disconnessi dagli ecosistemi esotici e primitivi e trattano l'antropofagia come portatore di simbolismi psicologici che dovrebbero andare al di là del mero shock value, cosa che non sempre riesce loro. Il cannibal, quindi, può farsi metafora della consunzione di sé e della perdita dei propri confini, dell'assimilazione o del potere nei confronti dell'altro o, ancora, del mutamento dei ruoli nella società con attenzione verso questioni di genere (Raw, 2016). In tali casi, il valore del cannibal non risiede (solo) nella crudezza delle immagini ma nella capacità di esplorare zone d'ombra psicologiche, utilizzando una metafora estrema per indagare meccanismi più profondi di relazione, potere e identità.
L'evoluzione del clown, da intrattenitore gioioso a incarnazione dell'orrore, rappresenta uno dei più affascinanti slittamenti semiotici della cultura popolare. Pochi soggetti, quanto i clown nel cinema, incarnano "das Unheimliche", il perturbante freudiano, con quell'aspetto non del tutto umano, triste e contemporaneamente allegro (dissonanza cognitiva), ed un comportamento non coerente con gli stimoli ambientali, dato che impongono una risata forzata ad ogni loro inciampo, ciò che Mark Seltzer, nel suo libro "Serial Killers: Death and Life in America's Wound Culture" (1998), definisce "il perfetto simulacro del divertimento che nasconde l'abisso". Il clown horror, quindi, rappresenta la perfetta sovversione del principio di piacere: il divertimento si trasforma in terrore, il riso in urlo, il gioco in morte (Marina Warner). Apice di questa strana inquietudine, che coaugula una più ampia ansia sociale in un terrore unico, è il Pennywise di It (1990). Forse, non è neppure casuale che la figura del clown malefico emerga con particolare forza negli anni '80 e '90, periodo che lo psicoanalista Robert D. Stolorow identifica come l'apice della "paranoia suburbana americana". In quello stesso periodo, questo sottogenere si arricchisce di sfumature metafilmiche con Killer Klowns (1988) che espandono il terrore suddetto tramite una chiave ironica e grottesca, aumentando la trasformazione semantica di oggetti comunemente connesi alla gioia (zucchero filato, palloncini, ...) in oggetti mortiferi e persecutori. Non dimentichiamo l'inquietante bambola pagliaccio di Poltergeist (1982), la quale, peraltro, combina due spunti fobici ben rodati (l'oggetto animato - vedi genere "Cursed & killer object"), e l'indimenticabile Capitano Spaulding de la Casa dei 1000 corpi (2003), un altro buon esempio di "perturbante ludico" (Noël Carroll). Nei primi decenni del XXI secolo, Terrifier (2016) e il suo Art the Clown fanno tornare l'icona clownesca ad un terrore più basilare e viscerale, un "ritorno al gore primigenio" (David J. Skal) e ad un soggetto mosso da Male puro che porta dolore e caos, in risonanza con un clown del cinema lontano dall'horror e più vicino al cinecomic, ovvero il Joker interpretato da Heath Ledger nel 2008. Utile, a questo proposito, citare anche il Joker (2019) interpretato da Joaquin Phoenix, anch'egli soggetto non orrorifico ma più psicologicamente drammatico di quanto espresso nel 2019; quest'ultimo clown, in efetti, attinge all'immagine del clown come sintesi del disagio, diventando rappresentante grottesco del caos sociale contemporaneo, congelato in maniera folle fra due estremi, la risata e la morte.
"La tragedia è quando mi taglio un dito. La commedia è quando tu cadi in un tombino e muori", così il regista Mel Brooks sintetizzava, con la sua consueta irriverenza, l'essenza di un genere che da secoli nel teatro, e da un secolo tramite i film, trasforma le nostre ansie quotidiane in risate liberatorie. La commedia cinematografica rappresenta molto più di un semplice intrattenimento: è un laboratorio antropologico dove si sperimentano i limiti del politically correct, si esplorano i tabù sociali e si testano le soglie di tolleranza del pubblico. Nel vasto ecosistema della commedia, distinguiamo questo genere dalle sue ibridazioni più specifiche, come il "Comedy horror", che merita una sezione separata per la sua capacità sincretica di generare un cocktail espressivo unico. Secondo lo stesso principio, merita una sezione a sé il genere "Dramedy". In questa sezione, invece, si elencano film pienamente rientranti nel genere commedia, oppure film che inseriscono espressioni comiche in un tessuto narrativo non rientrate del tutto nella commedia; quindi, avremo film con segmenti di dark o black comedy o narrazioni che rientrano nella cosidetta blue comedy. Quest'ultima, segnalata nell'elenco con la stella azzurra (★), rappresenta il territorio più scivoloso del genere, figlio dell'antica tradizione del fescennino romano e delle farse medievali, anche se la sua massima influenza va riportata alla stand-up comedy americana. Qui, il confine tra trasgressione liberatoria e volgarità si fa sottile; la blue comedy, infatti, utilizza tematiche generalmente ritenute indecenti e poco delicate come perno delle battute o della situazione ironica. Il sesso, soprattutto, diventa tema centrale di uno spirito ironico che, sfidando le convenzioni, sembra connotarsi come sovversiva. A differenza della Dark Comedy che si concentra su temi tetri, seri e spaventosi rivestendoli di una paradossale quota ironica, la blue comedy si rende efficace proprio perché il suo terreno di partenza è il terreno sociale condiviso, la convenzione e specifici valori sessuali. Essa, quindi, procede infrangendo questi confini, ovvero, in un doppio movimento uguale e contrario, evoca e sovverte la norma, cosa che provoca una risposta liberatoria (cfr. Freud, 1905, Il motto di spirito) o anche resistenza e sconcerto, finendo per ofendere parte della platea. Ciò spiega la sua natura controversa e il motivo per cui spesso è oggetto di censura: chi tende a sentirsi offeso dalla blue comedy è come se riconoscesse ad essa, erroneamente, una pedagogia sovversiva, quando, nella quasi totalità dei casi, la finalità della blue comedy è il sollievo momentaneo con la messa in ridicolo delle manie e delle contraddizioni umane, una trasgressione temporanea delle norme sociali utile a rafforzare, paradossalmente, l'ordine costituito. All'opposto dello spettro, troviamo il dark o black humor (★), anche noto gallows o morbid humor (umorismo da forca o morboso), che fa nascere la risata dall'assurdo, dal contrasto stridente tra la gravità delle situazioni e la loro rappresentazione paradossalmente comica. Il black humor cinematografico affonda le radici nella letteratura di Jonhatan Swift ("Istruzioni alla servitù", 1745), Nathanael West ("il Giorno della locusta", 1939), Kurt Vonnegut ("Mattatoio n. 5", 1965) e Joseph Heller ("Comma 22", 1961), ma trova nel medium filmico una dimensione visiva che amplifica l'effetto straniante, poiché mette in luce e utilizza argomenti generalmente considerati inidonei allo scherno, poiché seri e dolorosi, quali la malattia, la sofferenza, la povertà, ma soprattutto la morte o ciò che la ricorda, attraverso una lente deformante che li rende digeribili: come scriveva E.B. White, "L'umorismo è un modo di dire qualcosa di serio". Il dark o black humor non esplora, in genere, temi volgari, disgustosi, connessi al sesso e ai fluidi corporei che sono più spesso pertinenza della blue comedy. La commedia cinematografica rimane uno dei pochi generi per il quale l'intelligenza e la volgarità, la raffinatezza e la spontaneità possono convivere senza contraddizione apparente, uno spazio di libertà creativa, in cui ogni risata è un piccolo atto di ribellione contro la seriosità del mondo; parafrasando il regista Billy Wilder: "Se vuoi raccontare alle persone la verità, fagliela ridere, altrimenti ti uccideranno".
L'incontro tra terrore e risata rappresenta una delle alchimie più affascinanti del cinema: la comedy horror nasce dalla consapevolezza che paura e umorismo condividono radici sorprendentemente comuni. Entrambi ci colgono di sorpresa, entrambi provocano reazioni fisiche involontarie, entrambi ci liberano dalle convenzioni quotidiane attraverso una sorta di catarsi liberatoria che bypassa la razionalità per toccare direttamente l'istinto. Sin dagli albori cinematografici, i pionieri intuirono questa parentela segreta, quella connessione profonda che lega il sobbalzo di paura al riso improvviso. Il Castello degli spettri (1927) e il filone delle Old dark house già mescolavano brividi e sorrisi con naturalezza disarmante, preparando il terreno per capolavori come Frankenstein Junior (1974) di Mel Brooks, pellicola nella quale l'ironia diventa strumento di decostruzione totale, smantellando con eleganza ogni convenzione del genere a partire dai primissimi 13 rintocchi d'orologio! Il percorso evolutivo del genere attraversa, poi, i territori selvaggi della commedia splatter anni Ottanta, dove registi come Peter Jackson con Splatters - gli schizzacervelli (1992) o Sam Raimi con la trilogia iniziata con la Casa (1982) trasformano l'eccesso in poetica, l'esagerazione in linguaggio. Il sangue diventa pittura espressionista, la violenza si trasforma in coreografia surreale. Il genere opera attraverso un meccanismo di sovversione raffinata: esaspera i cliché horror fino al parossismo, trasformando lo splatter in spettacolo grottesco, la tensione in gioco consapevole dove regole e aspettative vengono sistematicamente tradite. Quando il sangue schizza con geometrie impossibili o i mostri inciampano sui propri tentacoli, l'orrore si svuota della sua carica minacciosa per diventare complice dello spettatore, generando quella particolare forma di piacere estetico che nasce dal riconoscimento dell'artificio. Questa complicità è il cuore pulsante della comedy horror: mentre l'horror tradizionale mantiene una distanza ostile - il film come predatore, lo spettatore come preda da disgustare (film dell'orrore) o spaventare (film del terrore) in un rapporto di sostanziale antagonismo - qui si stabilisce un patto di fiducia, un'alleanza segreta tra schermo e platea. L'ironia disinnesca la bomba della paura, permettendoci di ridere delle nostre stesse angosce e, paradossalmente, di metabolizzarle attraverso il filtro purificatore della risata che trasforma l'angoscia in leggerezza senza, però, obliterarla completamente.
"Mostratemi un bambino prima dell'adolescenza e vi mostrerò un'anima pura. Mostratemi lo stesso bambino dopo, e vi mostrerò un potenziale mostro" (David Cronenberg, 1986). Il coming of age è quel genere cinematografico che, attraverso diversi registri narrativi (horror, drammatici, comici, ...), narra dell'esperienza universale della crescita e delle angosce adolescenziali; un mondo a metà fra il nitore dell'infanzia e l'oscurità dell'età adulta, fermo restando che questa dicotomia è spesso molto più figlia di una narrativa, appunto, artistica che specchio della concreta realtà. Età di metamorfosi, la pubertà e l'adolescenza fanno emergere nel cinema delle creature inquiete, desiderose di sperimentare ma anche spaventate e spaventevoli: da Carrie White con i suoi poteri terrificanti (Carrie - lo sguardo di Satana), a pellicole che sovrappongono licantropia e menarca (Ginger Snaps). La trasformazione fisica diventa la manifestazione tangibile di quella crisi identitaria. Una pellicola come It Follows (2014) costruisce un'intera mitologia dell'angoscia adolescenziale attorno alla sessualità emergente. La tripartizione spaziale che caratterizza spessissimo questi film - analizzata con acume da Noël Carroll nel suo "The Philosophy of Horror" - riflette le sfere concentriche dell'esperienza adolescenziale: la casa (spazio familiare divenuto improvvisamente estraneo), il corpo (territorio di inquietanti metamorfosi) e il mondo esterno (luogo di minacce e possibilità). Film come Lasciami entrare (2008) esplorano questa topografia esistenziale con straordinaria sensibilità, trasformando il gelido paesaggio svedese in un correlato ambientale dell'isolamento adolescenziale; quindi, trasformando l'esperienza universale della crescita in visioni di straordinaria potenza allegorica.
Sottogenere del thriller, o anche dell'horror, definito pure “single location thriller”, portato agli onori della cronaca dal film Cube (1997) di Vincenzo Natali (benché vi fossero precedenti), pellicola che ha modellato il paradigma dei contained movies: un gruppo di estranei intrappolati in uno spazio limitato nella sua calpestabilità e ostile, luogo in cui la vera minaccia non sono tanto le trappole mortali, quanto le dinamiche interpersonali che si sviluppano tra i protagonisti. Quindi, il genere non solo esplora unicamente dimensioni claustrofobiche o di astuzia, ma anche e sopratutto la relazione e reazione umana se posta sotto pressione. La doppia dimensione del limite scenografico e della ricca dinamica relazionale ha dato al genere anche una terza definizione, ovvero thriller esistenziale minimalista poiché le opere che utilizzano la limitazione spaziale non lo fanno solo come espediente narrativo ma come metafora della condizione umana, della competizione sociale e dei limiti morali che siamo disposti a superare in situazioni estreme. Film come Exam (2009) o Circle (2015) portano il concetto ancora più all'essenziale, riducendo lo spazio fisico al minimo e concentrandosi quasi esclusivamente sulla dimensione morale e filosofica della situazione. Sono, di fatto, esperimenti di teatro filmato o anche di kammerspiel moderno. Escape Room (2019) rappresenta una curiosa evoluzione commerciale del genere che incorpora nella propria struttura narrativa, elementi derivati dai reality show e dai videogiochi detti, appunto, “escape room”; un riflesso interessante della nostra era digitale e della gamification dell'intrattenimento.
Uno degli angoli più perturbanti del nostro universo cinematografico, luogo in cui la paura non nasce dal buio di una cantina o dalla voce minacciosa di un assassino dietro la porta ma dalla vertiginosa consapevolezza della nostra insignificanza cosmica. Il cosmic horror - quell'orrore cosmico connesso, se non del tutto sovrapponibile, alla poetica inauguarta da H.P.Lovecraft - rappresenta quella peculiare forma di terrore che emerge quando l'umanità si confronta con forze e dimensioni che trascendono ogni possibile comprensione, dimensioni nascoste alla vista ma coesistenti. Come suggeriva già André Bazin in "What is Cinema?", lo spettacolo cinematografico possiede la capacità unica di rendere visibile l'invisibile, di materializzare l'astratto". Nel cosmic horror, questa facoltà raggiunge il suo apice paradossale: tentare di visualizzare ciò che, per definizione, dovrebbe rimanere oltre i limiti della percezione umana. È un cinema che si nutre dell'Unheimliche, il perturbante freudiano, ma elevato a potenza cosmica. Questa sezione esplora quei film che osano spingersi oltre il velo della realtà convenzionale con protagonisti che si trovano a confrontarsi con geometrie impossibili, entità ancestrali e verità che frantumano la loro sanità mentale. Da La Cosa (1982) di Carpenter - che trasforma la paranoia della Guerra Fredda in metafora dell'alterità cosmica - fino alle più recenti interpretazioni come Annientamento (2018) di Garland, dove la natura stessa diventa un'entità aliena e trasformativa, fino a plateali scenari lovecraftiani (the Void - il Vuoto, 2016). Il cosmic horror cinematografico non si limita a spaventare: interroga la natura stessa della realtà, flirta col concetto di multiverso e filosofia esistenziale, trasformando ogni visione in un esperimento psicologico sui limiti della comprensione umana. È un genere che, come osservava Laura Mulvey in "Visual Pleasure and Narrative Cinema", destabilizza lo sguardo dello spettatore, rendendolo complice involontario di rivelazioni che forse sarebbe stato meglio non conoscere.
Difficile definire un genere come il crime, così sovente sovrapposto ad altri linguaggi e altre narrative. Potremmo dire, in modo un po' manicheo, che i film crime sono semplicemente quelli nei quali il crimine è al centro degli accadimenti, sia che i protagonisti vi si trovino implicati, sia che debbano schivarne gli effetti. Con la sua brutale franchezza e il suo realismo, il crime si distingue dal noir come un fratello maggiore più diretto e meno tormentato. Se il noir si nutre di ombre metaforiche e letterali, il crime privilegia la luce del giorno; come ci fa sapere Martin Scorsese, commentando il suo stesso film Quei bravi ragazzi (1990): "il crime movie è ossessionato dal meccanismo del crimine, mentre il noir è ossessionato dalle sue conseguenze psicologiche." Anche Paul Schrader, nel suo saggio "Notes on Film Noir", sottolinea il fatto che il noir preferisca esplorare il lato esistenziale del crimine, trasformando ogni rapina in una metafora del destino umano. Non è un caso, quindi, che Michael Mann, maestro contemporaneo del crime, con Heat (1995), abbia costruito il suo stile su quello che lui stesso definisce un "iperrealismo clinico", mentre il noir classico si nutriva di quello che Raymond Durgnat chiamava "romanticismo paranoico". Eppure, come tutte le categorizzazioni artistiche, questi confini sono porosi: L.A. Confidential (1997), ad esempio, danza magistralmente sul confine tra i due generi, combinando la precisione procedurale del crime con le ombre morali del noir; James Ellroy, suo autore originale, ci fa sapere che: "Il crime racconta cosa è successo, il noir perché non poteva andare diversamente". Quindi, come da indicazioni dei maestri, in questa categoria mettiamo le pellicole del "come" e non tanto del "perché", anche se il confine fra le due cose è sottile, e diventa ancor più difficile segnare chiari perimetri quando al crime si mischia l'horror.
Film che narrano di oggetti mortiferi oppure che si animano per uccidere, una delle manifestazioni più interessanti e durevoli dell'horror, un sottogenere, il Cursed & Killer Object movie, che affonda le radici nell'ancestrale rapporto ambivalente tra uomo e materia, ovvero tra uomo e il materiale che lui stesso ha trasformato, elaborato, generato. Questi film sembrano cristallizzare le ansie della società consumistica attraverso la trasformazione degli oggetti del desiderio in veicoli di distruzione; la struttura narrativa di questi film, spesso, segue un percorso classico: l'oggetto viene scoperto, la sua maledizione si manifesta e, perciò, i protagonisti cercano di liberarsene, spesso con esiti tragici. La genealogia di questi film ha parenti anche remoti (il burattino di Incubi notturni, 1945) ma trova la sua codificazione migliore nell'epoca post-industriale, quando la proliferazione degli oggetti di massa genera una sorta di "feticismo invertito": l'oggetto rivendica il proprio ruolo attivo, punendo chi osa possederlo. Il Necronimicon de la Casa (1981), il puzzle box di Hellraiser (1987), il VHS di Ringu (1998) o la Polaroid di Smile - la Morte ha un obiettivo (2009) non sono semplici leve narrative ma simboli di un perturbante che si nasconde qua e là nel quitidiano, trasformando l'ordinario in qualcosa pericoloso. Apice di tutto ciò è l'Anello del Potere inventato da Tolkien: esso non è semplicemente l'oggetto comune perturbante nascosto nello sprofondo della realtà, ma è il distillato del Male assoluto E del male che alberga potenzialmente in tutti gli abitanti del mondo fantasy (come dire, tutti noi). Questo sottogenere filmico rivela, inoltre, una sofisticata comprensione della teoria degli oggetti transizionali di Winnicott: ciò che dovrebbe mediare tra il sé e il mondo esterno diventa, invece, ponte verso l'alterità più minacciosa. Concetto non da poco, questo, poiché implica che il pericolo (in definitiva, la morte) non arriva dall'esterno ma dall'intimo rapporto con le cose che ci circondano, in rappresentanza delle persone. Sempre in quest'area, il sottogenere definibile Dolls Horror (★), ovvero quello che vede bambole, burattini e pupazzi come fonte del male, sembra risultare per tutti invariabilmente il più inquietante fra quelli che trattano di oggetti maledetto o animati; nel caso delle bambole un timore così acuto, e dalle caratteristiche fobiche, che ad esse basta rimanere poggiate in qualche parte del campo visivo, senza nulla fare, per generare nelle persone un senso di inquietudine e paura. Il terrore, in questo caso, risulta potenziato dal loro aspetto vagamente umano che desta istintivamente sensazioni spiacevoli; si confronti l'effetto psicologico noto come "Uncanny Valley" emerso nell'ambito della robotica e dell'aspetto umano non-umano degli androidi. Il territori nebuloso in cui il familiare diventa fonte di terrore ospita diversi soggetti: dal sinistro rapporto fra il ventriloquo Frere e il suo pupazzo Hugo Fritch del sopracitato film del '45, alla valenza perversa delle bambole nel giallo all'italiana (Profondo rosso, 1975); dalla bambola demoniaca che incarna la nostra rabbia (Trilogia del terrore, 1975) alla Bambola Assassina (1988) e ai burattini malefici di Dead Silence (2007), il cinema ha trasformato i giocattoli dell'infanzia in vessilli d'orrore che tradiscono l'aspettativa del bambino e di un mondo che lui iniziava a conoscere e che, ora, perverte il comfort domestico. In questo inquietante teatro di plastiche animate e porcellane malefiche, ogni film diventa, per citare la studiosa Marina Warner, "una meditazione sulla natura stessa dell'animazione cinematografica, dove l'illusione del movimento - l'essenza stessa del cinema - si trasforma in fonte di terrore primordiale."
Il genere demoniaco rappresenta un territorio particolarmente affascinante: nelle pellicole del suo genere, le entità infernali si manifestano in forme che trascendono la tradizionale narrativa della possessione satanica o della manifestazione classica del Maligno. Questi demoni, rappresentati in tali pellicole di area soprannaturale (quindi il genere Demoniaco può essere considerato un sottogenere del Soprannaturale), si manifestano ai protagonisti di questi racconti come una forma di alterità che sfida le più basilari concezioni di di ciò che sappiamo essere vero nella nostra realtà. A differenza del cinema della possessione, in cui il demoniaco si esprime soprattutto attraverso i paradigmi cattolici o di un folklore comunque facente capo ad una religione, questo sottogenere esplora un territorio più primitivo e poliedrico. La Casa (1981) di Sam Raimi ne rappresenta l'esempio paradigmatico: lì, i demoni sono entità incarnate, manifestazioni tangibili del caos che si scatenano con violenza selvaggia e quasi gioiosa. Da Demoni (1985) di Lamberto Bava ad Hellraiser (1987) di Clive Barker, questo filone cinematografico si caratterizza per una particolare predilezione per l'eccesso visivo e la materialità dell'orrore ma vi è anche una casistica di cinema demonologico di suggestioni e spiriti impalpabili; in ogni caso, creature, come ci insegna il "demonologo" Bruce Campbell, non interessate alla tua anima, ma solo fare a pezzi il tuo corpo. Dallo splatter artigianale degli anni '80 alle sofisticate produzioni contemporanee, questo sottogenere continua a reinventarsi, dimostrando come il demoniaco possa assumere forme sempre nuove nell'immaginario cinematografico.
Realtà agli antipodi rispetto all'utopia, queste ultime società ideali, perfette, nelle quali vigono serenità e uguaglianza. Dalla claustrofobica metropoli verticalizzata di Metropolis (1927) di Fritz Lang, pietra miliare che ha codificato molti dei tropi visivi del genere, a Blade Runner (1982) di Ridley Scott, fino ad arrivare a V per Vendetta (2005) di McTeigue, questi film hanno saputo trasformare le ansie della loro epoca in potenti allegorie visive. Interessante, poi, come il genere abbia fatto evolvere le sue tematiche: se 1984 (1984) di Radford, adattamento quasi letterale del capolavoro orwelliano, resta una fedele trasposizione dell'angoscia totalitaria, siamo passati da lavori quali Brazil (1985) di Terry Gilliam, che scherniva la burocrazia kafkiana dell'era thatcheriana, a racconti più attuali nei quali la distopia è sovente incentrata sulla sterilità umana, sul collasso ambientale o su un'iper-presenza delle macchine senzienti. Ciò che rende intrigante il cinema distopico, spesso ma non solo d'impianto fantascientifico, è la sua capacità di mostrarci non tanto futuri impossibili, quanto, piuttosto, le tendenze già presenti nel nostro presente ma amplificate fino alle loro estreme conseguenze. Questi film sono specchi deformanti che rivelano verità scomode sull'attuale società e sulle strutture di potere che governano la vita sulla Terra, riflettendo, quindi, le nostre paure collettive più profonde attraverso visioni di futuri tanto inquietanti quanto obliquamente possibili.
Meraviglioso territorio di confine del cinema in cui la realtà si trasforma in poesia visiva o mera osservazione, specialmente quando si spinge verso i suoi margini più estremi e inquietanti, riferiti con sguardo clinico o cinico, quanto compassionevole. Il genere documentaristico, anche senza arrivare al genere Mondo o agli Shockumentary, ha sempre flirtato con l'idea di mostrare l'inmostrabile, portare alla luce realtà che preferiremmo ignorare. La macchina da presa si fa microscopio puntato sulle piaghe della società, rivelando una bellezza perturbante nella decomposizione sociale. La tradizione a cui appartengono i documentari affrontati da Exxagon è, perlopiù, quella di un cinema che rifiuta di distogliere lo sguardo, che trova nella persistenza dell'osservazione una forma di nobilitante resistenza morale. Un cinema che ci ricorda, con ogni fotogramma, che il mondo è molto più strano, terribile e meraviglioso di quanto vorremmo ammettere.
L'evoluzione del ruolo femminile nel cinema è un fenomeno interessante e che si è fatto molto vivace nei primi decenni del XXI secolo. Se nei primi anni del cinema, le donne erano spesso relegate a ruoli secondari o stereotipati (la damigella in pericolo, la moglie devota, la femme fatale), già nel '40 e '50, il noir americano iniziò a esplorare figure femminili più sfaccettate che mostravano una complessità psicologica fino ad allora raramente vista (Femmina folle, 1945). Nei decenni successivi, la donne del cinema ha seguito l'emancipazione che si combatteva in società; le pellicole di genere hanno magnificato questo movimento d'emersione disegnando donne risolute ed antagoniste, quali Ellen Ripley di Alien (1979) o, più recentemente, Furiosa in Mad Max: Fury Road (2015). Questa sezione non vuole garantire Quote Rosa ma elenca alcuni film nei quali la donna emerge per alcune peculiarità interessanti da analizzare, non necessariamente film nei quali la donna è protagonsita se non si è avvertito che l'istanza femminile avesse una qualche significanza peculiare che può essere positiva come anche altamente negativa. D'altra parte, la donna del cinema moderno smette di essere un soggetto semplicemente buono o cattivo ma viene scritto come un essere umano complesso con motivazioni profonde e spesso contraddittorie, con particolare sottolineature circa il tema dei fattori psicosociali e sessuali. È importante notare come questa trasformazione stia avvenendo anche dietro la macchina da presa, con sempre più registe che portano il loro sguardo unico (vedi sezione Registe horror) sulla narrazione, peraltro non necessariamente incentrata sul femminile.
Nella fertile intersezione tra drammatico e commedia nasce la dramedy, crasi di "drama" e "comedy", dando forma a un genere che ha saputo conquistare progressivamente un seguito sempre più vasto e devoto. La ragione di questo successo risiede nella sua straordinaria capacità di abbracciare la complessità dell'esperienza umana senza ridurla a formule preconcette. Dove il dramma tradizionale tende a esplorare le zone d'ombra dell'esistenza con piglio solenne e spesso implacabile, e la commedia pura si affida alla leggerezza per alleggerire il peso del quotidiano, la dramedy trova il suo spazio vitale in quella terra di mezzo dove la vita realmente accade. È qui che si svelano le contraddizioni più autentiche: il riso che emerge dal dolore, la malinconia che si nasconde dietro un sorriso, quella particolare forma di saggezza che nasce dall'accettazione dell'imperfezione. Il genere si distingue per la sua capacità di maneggiare temi anche estremamente delicati - la morte, la solitudine, il fallimento, la malattia - senza mai cedere né al cinismo distruttivo né all'ottimismo a tutti i costi. Attraverso personaggi sfaccettati e profondamente umani, la dramedy riesce a trasformare la vulnerabilità in forza narrativa, facendo emergere quella verità sottile che solo l'alternanza tra lacrime e sorrisi sa rivelare. Così la dramedy diventa specchio fedele di un'umanità che ha imparato a ridere delle proprie fragilità senza per questo smettere di prenderle sul serio, offrendo quella particolare forma di catarsi che nasce dalla riconciliazione con la propria natura contraddittoria.