Nell'erba alta
-
Voto:
Quando i fratelli Becky (Laysla De Oliveira) e Cal (Avery Whitted) sentono le grida di un ragazzino (Will Buie Jr.) perso in un campo di erba alta, si avventurano per salvarlo, ma finiscono essi stessi intrappolati da una forza sinistra che li disorienta all’interno di un infinito campo di erba alta. Incapaci di sfuggire alla morsa di una antica entità che governa o genera il campo, riescono ad ottenere una possibilità di fuga solo quando si presenta nel campo Travis (Harrison Sloan Gilbertson), l’ex di Becky.

LA RECE
Natali trasforma il racconto di King/Hill in un horror cosmico dove l'erba diventa organismo psichico che materializza dinamiche inconsce, intrappolando i protagonisti in loop temporali kafkiani governati da un'entità che fagocita e sprofonda. Salti temporali, geografie impossibili, ma qualcosa manca, qualcos'altro tedia, o forse il film nasce negli anni sbagliati.
Vincenzo Natali prende ispirazione dal romanzo "In The Tall Grass" di Stephen King e Joe Hill (che altri non sarebbe se non il figlio di King, Joseph H.) e riporta in vita uno dei temi horror che fecero il successone del suo seminale Cubo (1997), ovvero l’orrore delle geografie impossibili che diventano perdita di orientamento esistenziale e che, qui, Nell’erba alta, assumono la dimensione di un orrore cosmico. La pietra che soggiorna al centro del campo verde, forse è demoniaca, forse è provenuta dallo spazio, quasi certamente è un oggetto appartenente ad un tempo antico in cui l’umano era a stretto contatto con il mistico e antiche entità lovecraftiane. La lettura psicologica della faccenda non è certamente troppo complessa. Stiamo parlando di un’entità che si sviluppa soprattutto in una dimensione ipogea, che confonde la percezione delle persone, che le assorbe facendole proprie e si espande in maniera tentacolare: l'erba alta non è semplice elemento scenografico ma organismo psichico che materializza le dinamiche di rimozione e coazione a ripetere, divenendo contenitore di proiezioni collettive, con quella sinistra capacità che avevano le sirene di attirare i viaggiatori con un “canto” che, nella fattispecie, è una richiesta di aiuto (cfr. Rovine, 2008). La dimensione temporale viene frammentata attraverso sovrapposizioni narrative, il tempo non scorre linearmente ma si stratifica in sedimenti emotivi che affiorano attraverso la ripetizione ossessiva degli eventi. Intrappolati in questa dimensione maligna, arcaica e inconscia, i protagonisti si trovano, come Sisifo, condannati ad un supplizio circolare del quale, tuttavia, cosa ulteriormente destabilizzante ma definitivamente affascinante, non si comprendono le regole. Il campo verde o, meglio, la pietra che tutto governa, sembra alleggerire l’esistenza e l’identità di coloro i quali vi si assoggettano, facendoli sprofondare in una condizione infantile di totale dipendenza da essa; l’Entità assume connotazioni materne arcaiche: un grembo che protegge e simultaneamente divora l’accolito in posizione totalmente anaclitica, cioè di appoggio dipendente. E non è un caso che questa dinamica da mater-arcaica si giochi contro la gravida protagonista e, in senso kinghiano, riprenda le dinamiche settarie già viste in Grano Rosso Sangue (1984). Natali, non stupisce ricordando il suo lavoro del ’97, lavora superbamente in uno spazio claustrofobico che qui diviene paradossale, in quanto i protagonisti, pur trovandosi in uno luogo aperto, sperimentano un senso di soffocamento kafkiano. Questionabile, forse, la scrittura dei personaggi, i quali, pur lasciando trasparire i loro demoni personali (il fratello “incestuoso”, il giovane non pronto alla paternità ma penitente, una figura di padre “inaffidabile”, un bambino dal volto sinistro, … ) avrebbero potuto essere scritti ancor più approfonditamente. E forse, da un’idea del genere, si poteva tirare fuori ancora di più che non un gioco ripetuto che finisce per non schivare la noia. Oppure, forse, il problema è il periodo storico, la logica di visione take-away e l’atmosfera plastificata alla Netflix a me un po’ indigesta che ormai pervade buona parte della produzione filmica. Ma è evidente che il problema è più generazionale che reale; più mio che vostro ma, alla fine, più del film che mio! Film per nulla sciocco, e anche migliore di Grano Rosso Sangue, ma nato in un periodo storico di sveltezze, di disattenzione e di proposte offerte a tamburella che limitano la reiterazione alla base del processo di “cultizzazione”. Per me è un sì.
TRIVIA
Vincenzo Natali (1959) dixit: “Abbiamo girato in un campo vero il più possibile, ed è tutta erba vera. Non c'è modo di produrre sinteticamente quella roba. Ed è piuttosto selvaggio entrarci. Durante le riprese, la troupe aveva dei fischietti in modo che se si fossero persi avremmo potuto ritrovarli. Volevo rendere la natura un personaggio del film, e gran parte della bellezza deriva dall'ambientazione naturale.” (GQ.com).
⟡ Un personaggio parla di girare a sinistra o a destra in "questo giardino di sentieri che si biforcano". "Il giardino dei sentieri che si biforcano" è un racconto breve del 1941 di Jorge Luis Borges che specula sul fare a turno a sinistra o a destra in un giardino tortuoso e ramificato che conduce a diversi punti nello spazio, nel tempo e nei possibili risultati. Questo è un tema comune nel lavoro di Borges, e si adatta molto agli eventi del film.
⟡ C'è una Chevrolet del 1959 seduta fuori dalla chiesa con la griglia personalizzata per assomigliare a Christine, la Plymouth del 1958 dall'omonimo romanzo di Stephen King.
⟡ Questo film mostra un tema continuo nei film/libri di Stephen King di campi di erba alta alla Children of the Corn (1984) e labirinti come in Shining (1980).
Fast rating
Titolo originale
In the Tall Grass
Regista:
Vincenzo Natali
Durata, fotografia
101', colore
Paese:
USA, Canada
2019
Scritto da Exxagon nel settembre 2025 + TR; testo con licenza CC BY-NC-SA 4.0