Una delle forme più antiche e sofisticate di narrazione, veicolo espressivo che scandaglia in profondità l'animo umano e le sue sfaccettature. Il dramma si distingue per la sua capacità di costruire un'architettura narrativa nella quale le dinamiche psicologiche ed emotive dei personaggi vengono esplorate con particolare sensibilità in risposta a situazioni esistenziali che mettono alla prova la loro capacità di adattamento. Nel dramma, i personaggi non sono semplicemente attori di eventi ma diventano prismi attraverso i quali lo spettatore può osservare e comprendere la complessità dell'esperienza umana e, tramite un processo empatico, risuonare con le motivazioni profonde dei protagonisti del racconto e rispecchiarsi nelle loro lotte interiori. Le interazioni, i conflitti interiori e le scelte che sono chiamati a compiere gli attori s'intrecciano con temi universali che toccano le corde più profonde. Il processo di sviluppo dei personaggi assume un ruolo centrale nel genere drammatico, nel quale le situazioni di stress emotivo fungono da catalizzatori per una trasformazione che spesso rivela aspetti nascosti della loro personalità. Particolare rilevanza assume il legame con l'horror, del quale il genere drammatico rappresenta la matrice originaria; quindi, è possibile dire che ogni horror è, sostanzialmente, un film drammatico. Nel contesto di questo sito, nella categoria "drammatico" vengono collocate le pellicole che privilegiano una dimensione più classicamente drammatica rispetto agli elementi più esplicitamente orrorifici o cruenti altrove posti in elenco.
Affascinante ibridazione tra il cinema di denuncia sociale e il realismo più crudo, spesso oscillando pericolosamente tra documentario e finzione narrativa, tra necessità di mostrare certi recessi sociali e il farlo con finalità e stile exploitation. Questi film, emersi tra gli anni '70 e '80, hanno saputo catturare il zeitgeist di un'epoca in cui l'eroina divorava un'intera generazione di giovani europei. Lavori ormai di culto, almeno qui in Italia, come Amore tossico (1983) di Claudio Caligari e, più noti all'estero, tipo Christiane F. - Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (1981) di Uli Edel, si distinguono per un approccio quasi antropologico alla materia, pur tuttavia capaci di iniettare, in codici espressivi che richiamano il neorealismo, elementi "punk" o anche palesemente ironici in quanto semplice rappresentazione del gergo di strada. Si rimane, così, in bilico fra l'urgenza del film di impegno e una fascinazione, da guilty pleasure, per l'estetica del degrado con sconfinamenti, da parte dello spettatore, nel voyeurismo borghese che ama ispezionare i mondi più sfortunati del suo e adora sentirsi capace di comprendere e (ad assoluta distanza) compartecipare. Ciò è sicuramente facilitato dal fatto che gli attori dei droga-movie, non di rado, non fossero professionisti ma veri tossici o ex tossicodipendenti, i quali portano con ovvia naturalezza la loro esperienza nella costruzione narrativa. Insomma, un genere filmico molto specifico e non moltissimo abitato, composto da storie drammatiche, con qualche margine di sorriso, di gente la cui vita si gioca fra "un ventino e un cinquantino".
Fusione dell'horror con tematiche erotiche più o meno esplicite, emerso con virulenza negli anni '70-'80, pur con avvisaglie ben precedenti; si pensi, ad esempio, al capezzolo di Marion Crane, sfuggito alle forbici censorie, accoltellata sotto la doccia in Psyco (1960). Nell'Erotic Horror, tuttavia, la componente erotica non è semplicemente giustapposta agli elementi horror ma diventa parte integrante della narrazione. Il desiderio sessuale si trasforma in minaccia, o l'opposto, creando un'atmosfera dove sensualità e terrore si fondono, è possibile osservare in tutti quei film nei quali, ad esempio, il vampirismo si fa metafora del desiderio sessuale represso. Mentre le pellicole Sexploitation (vedi sezione Exploitation) utilizza contenuti erotici principalmente come richiamo commerciale, offrendo uno spettacolo di corpi più diretto e poco sofisticato, l'Erotic Horror li integra in una narrazione più complessa che può avere come tema portante la trasformazione del corpo (cfr. Body Horror), il desiderio come fonte di pericolo, e la sessualità come elemento soprannaturale o mostruoso. Tuttavia, le versioni più exploitation dell'Erotic Horror, anche note come ghoulies, non adottavano particolari raffinatezze in scrittura e ambivano unicamente a combinare in maniera più proficua e scioccante possibile orrore e sessualità. Gli attuali esempi di erotic (elevated) horror (es. Under the skin, 2013), meno espliciti che in passato, veicolano ancora esplorazioni delle paure esistenziali ma privilegiando la suggestione rispetto alla mera esposizione. Le pellicole horror in cui il fattore sessuale prevale fino al punto della pornografia vengono elencate nella sezione "Hardcore".
L'erotismo è, sia nel cinema così come nella fotografia che nella narrativa, un linguaggio in bilico fra la raffinatezza autoriale e provocazione commerciale, tra espressione artistica e stimolazione sensoriale. Esso sollecita un discorso che deve essere chiuso creativamente dallo spettatore, a differenza di quanto avviene perlopiù con i prodotti pornografici (cfr. sezione Hardcore) il cui non-discorso si fa oggettivo e non creativamente interpretabile. Le prime scintille di erotismo filmico balenarono già nei primissimi esperimenti di Georges Méliès, il quale, nel 1897, realizzò Après le bal, in cui una donna si spoglia (pudicamente) assistita dalla sua cameriera; un'innocente provocazione secondo i moderni standard ma che, all'epoca, fece scandalo. Quindi, nella Belle Époque emersero i primi "film galanti", come venivano eufemisticamente chiamati, proiettati in discreti cabinet particuliers per un pubblico selezionato di gentiluomini. L'erotismo cinematografico vero e proprio, o almeno simile a quello attuale, è figlio degli anni '20 con le "symphonies érotiques" francesi e i film della Repubblica di Weimar tedesca. Registi come Georg Wilhelm Pabst esplorarono temi come il desiderio e la sessualità: Pandora's Box (1929) rappresenta, forse, l'apice di questa prima ondata di sofisticato erotismo cinematografico. Il Codice Hays negli Stati Uniti (1934) e regolamentazioni simili in Europa costrinsero, poi, il cinema erotico a una lunga ibernazione creativa, durante la quale l'erotismo sopravvisse solo attraverso sottili allusioni e metafore visive elaborate. Successivamente, nel Sessanta, il genere riemerse prepotentemente sia tramite il suo lato più bieco e commerciale, l'exploitation, sia con produzioni sofisticate che hanno fatto dell'allusione l'arma più potente per la costruzione di significati; uno dei primi fra essi è che la sessualità suggerita non solo è eccitante ma far riflettere sulla natura stessa del desiderio.
Categoria ASSOLUTAMENTE NON idonea a minori e persone sensibili.
Eccesso visivo ma, soprattutto, per distinguerlo dalle pellicole Ultragore, eccesso di violenza psicologica. Delle tante stanze che si possono visitare su Exxagon.it, qui vi si para di fronte la porta di quella stanza che, come nella fiaba di Barbablù, buona parte del pubblico non dovreste visitare; ciò vale soprattutto per i film seguiti dalla stella (★), i quali, già accolti fra le pellicole più violente, raggiungono livelli espressivi e concettuali tali da renderli insopportabili alla maggior parte della popolazione. Qui, quindi, la settima arte spinge i confini della rappresentazione verso territori disturbanti. Il cinema estremo scuote lo spettatore connettendolo, per quantità e qualità, a cose e immagini che cuturalmente, e nella quotidianità, noi volontariamente evitiamo per mantenere un sano equilibrio psichico. Perché prestarsi a questi spettacoli? Per trasformando l'orrore e il disgusto in arte - come disse il critico Robin Wood - o, semplicemente, per governare il temuto che, tramite l'arte, possiamo vedere, stoppare, riavvolgere, riguardare, spegnere. Non si tratta, o non dovrebbe mai trattarsi, di semplice ricerca dello shock-value. L'obiettivo è visitare questi territori estremi con sguardo critico e consapevole, decodificarne il linguaggio o, anche, semplicemente, sorridere alle più che occasionali derive dell'eccesso per l'eccesso. Come osservava già Aristotele nella sua Poetica, la tragedia purifica l'anima attraverso pietà e terrore. Il cinema estremo opera secondo meccanismi simili: ci mette di fronte all'inaccettabile per permetterci di elaborarlo in uno spazio protetto. Il cinema estremo funziona come una moderna pharmacon - veleno e medicina insieme, ci disturba per tranquillizzarci, trasforma il caos in cosmos, l'indicibile in racconto. In ogni caso, vale la pena ribadire il caveat: exxagon.it non tratta cinema generalista; questa sezione di pellicole, specialmente se stellate, è DAVVERO inadatta ai più. I minori, le persone che si riconoscono come particolarmente sensibili o coloro che stanno vivendo un qualche tipo di diasgio o squilibrio psicologico NON dovrebbero esporsi alla visione di questo cinema. Pazientino ed attendano tempi migliori, oppure, con grande serenità, guardino altro, ché, francamente, c'è tanto bell'altro cinema da vedere!
Il cinema fantasy, da sempre molto amato dal pubblico, ha il compito principale di trasformare l'impossibile in credibile attraverso la pura forza della narrazione visiva. A differenza della fantascienza, che ancora si radica in possibilità scientifiche future, e percui deve mantenere una dimensione di verosimiglinza, il fantasy abbraccia completamente l'irrazionale, attingendo da mitologie, folklore e archetipi universali per costruire mondi dove la magia non solo esiste, ma costituisce spesso l'elemento prioritario della storia. I grandi cicli epici di Tolkien, le saghe arturiane e le fiabe dei fratelli Grimm hanno fornito al cinema un patrimonio narrativo ricchissimo, dove eroi, draghi e incantesimi non sono semplici espedienti spettacolari ma simboli profondi delle paure e dei desideri umani. Il viaggio dell'eroe, archetipo fondamentale del fantasy, diventa metafora della crescita personale e del confronto con le proprie paure (il "Coming of age" per adulti). Film come Il Labirinto del Fauno di Guillermo del Toro dimostrano come il fantastico possa diventare strumento di analisi politica e sociale, trasformando la fuga dalla realtà in un atto di resistenza creativa. Il caso del Dark Fantasy (★) è quello di un genere crossover che fonde elementi del fantastico, o del fantasy più tradizionale, con toni cupi e atmosfere horror, creando una tensione narrativa che può produrre risultati di straordinaria potenza visiva ed emotiva. A differenza del fantasy in cui prevale una chiara distinzione tra bene e male, il Dark Fantasy vede esistere una zona morale grigia abitata da protagonisti che si confrontano con dilemmi etici complessi mentre navigano in ambientazioni sovente gotiche e decadenti popolate da creature soprannaturali. Fattori metafisici, quali la magia, assumono connotazioni più oscure e pericolose rispetto al fantasy tradizionale. Ciò che rende il Dark Fantasy particolarmente intrigante è la sua capacità di sovvertire le convenzioni narrative tradizionali: data la zona grigia nella quale si muovono i personaggi, non è raro che gli eroi siano figure ambigue e i mostri possono rivelarsi salvatori o inaspettatamente sensibili (Border - Creature di confine, 2018). Versione ancora più oscura e tetra del Dark Fantasy è il Grimdark Fantasy (★) le cui tematiche sono spesso tangenziali al demoniaco, alla morte o alla più minacciosa mostruosità o, ancora, a territori pieni di orribili pericoli, creando un equilibrio precario tra meraviglia e orrore. Il grim dark fantasy rappresenta l'estremizzazione del vettore fantasy, spingendo il genere verso territori quasi nichilisti dove la speranza diventa bene raro e prezioso. Qui il fantasy abbandona definitivamente ogni velleità consolatoria per diventare spietato ritratto di mondi dove il male spesso trionfa e gli eroi pagano prezzi terribili per ogni piccola vittoria. Questo sottogenere trova la sua massima espressione in opere come la saga di Helleraiser di David Lowery, dove l'elemento fantastico diventa veicolo di angoscia esistenziale. Nel grim dark, la magia è spesso corruzione, i mostri rappresentano l'inevitabilità della decadenza e gli dei, quando esistono, sono entità indifferenti (si pensi al Crom di Conan il Barbaro) o apertamente malvagie (i Grandi Antichi di Lovecraft). Non si tratta di pessimismo gratuito, ma di una forma estrema di realismo applicata a contesti fantastici: questi film ci ricordano che anche nei mondi più immaginari, alcune delle leggi fondamentali dell'esistenza umana - dolore, perdita, morte - rimangono immutate.
Nicchia di film che trasformano le festività più amate in incubi cinematografici, sovvertendo sistematicamente i rituali, soprattutto quelli connotati da gioia e bontà, che strutturano la nostra vita sociale, decostruendo i momenti di coesione sociale attraverso il linguaggio dell'orrore. Dal pionieristico Black Christmas (1974) di Bob Clark, la contaminazione dell'innocenza natalizia, fino al recente Krampus (2015), questo sottogenere di film trasforma la gioia collettiva in terrore condiviso, esplorando il lato oscuro della celebrazione, quasi a magnificare l'ombra junghiana di quest'ultima per la quale ogni decorazione natalizia può diventare un'arma letale. Non è un caso che molti di questi film utilizzino quello che Robin Wood definisce "il principio dell'inversione rituale", dove ogni elemento festivo viene sistematicamente capovolto nel suo opposto terrificante. Quindi, in questa sezione trovano spazio i film che hanno reimmaginato le festività, perlopiù attribuendo loro una cifra malsana e reimmaginandole attraverso la lente distorta del cinema del terrore. Dal Ringraziamento cannibale di Blood Rage (1987), metafora della famiglia che divora se stessa, al Capodanno di Dodici rintocchi di terrore (1980), passando per le poco note uova di Pasqua ripiene di terrore di Easter Bunny, Kill! Kill! (2006), titolo che strizza l'occhio al cult di Russ Meyer. Questa perversione del calendario sociale diventa un pretesto per esplorare le ansie collettive legate ai rituali familiari e sociali. La scelta dello slasher come linguaggio privilegiato non è casuale: questo sottogenere rappresenta un ottimo veicolo per la destrutturazione, con il suo mix di voyeurismo, violenza ritualizzata e punizione della trasgressione.
Categoria NON idonea a minori e persone sensibili.
Il brutto per il brutto. Il grottesco, il disgustoso e l'abietto come strumenti di sovversione artistica. Il filth movie non è un cinema semplicemente venuto male perché povero o incompetente (lo Z movie), è, semmai, la rappresentazione rabbiosa o divertita dello schifo come regola d'arte e, non di rado, di vita. Pellicole per pochissimi ma, il più delle volte, grottesche più che aggressive o "cattive". Artisti dell'eccesso - Warters di Pink Flamingos, 1972, come padre putativo di tutti - orchestrano una sinfonia di trasgressioni che va oltre il semplice shock value (anche se non di rado ci si arena) per diventare un commento caustico sulla moralità borghese, trasformando il disgusto in una forma di resistenza culturale. L'elemento disgustoso si fonde con un'estetica del perturbante quotidiano, cosa che aveva un senso nei tempi passati della controcultura ma, forse, ancora di più oggi nell'era della sterilizzazione digitale dell'esperienza concreta, cosicché il filth, lo schifo, risvegli lo spettatore da una sorta di anestesia culturale; sempre che ciò venga narrativizzato in un film e non sia ridotto e shorts da scrollare l'uno dopo l'altro sul divano. Quindi, a dispetto dall'impressione iniziale e dall'idea preconcetta che il cinema del brutto e del disgusto stia lì solo per fare parlare di sé, esso mostra nella sua apparente casualità, e neppure troppo nascostamente, una sorta di rigore formale nel modo in cui orchestra il disgusto per ottenere specifici effetti emotivi e intellettuali nello spettatore.
Non necessariamente horror, il genere Folk emerge come una delle espressioni più affascinanti e antropologicamente rilevanti in ambito cinematografico, poiché incentrato sulla tematica delle tradizioni popolari sovente immerse in ambientazioni rurali. I film Folk, nello specifico quelli horror, si radicano non di rado nel terreno fertile dei culti pagani. Quando si parla di Folk Horror, non si può non citare la cosiddetta "Unholy Trinity" del cinema britannico degli anni '70: il Grande inquisitore (1968), la Pelle di Satana (1971) e il quintessenziale the Wicker man (1973); quest'ultimo, in particolare, rappresenta forse l'epitome del genere, un'opera che ha espresso al meglio il (dis)equilibrio fra modernità e tradizione popolare, lo strano sincretismo orrorifico che emerge fra urbanizzazione e antichi rituali. Il Folk horror, mai sopito da quel di Grano rosso sangue (1984) e tutt'oggi florido grazie al successo di film quali Midsommar (2019) rinnova l'orrore connesso all'isolamento e di come ciò porti sovente a un settarismo (cfr. Sette e Culti) incline al sacrificio rituale. Benché il folk horror sia spesso connesso a tematiche soprannaturali (quindi, siamo di fronte a una diramazione del fantasy), tuttavia, esso basa la sua forza narrativa non tanto sul metafisico ma soprattutto sulla tensione che emerge nell'interazione fra individui, dal momento che, il più delle volte, i protagonisti sono esterni alla subcultura folkloristica che li accoglie, e, quindi, sono assolutamente impreparati ad essa. Come ha detto Robin Hardy, regista del sopracitato film del '73: "Il vero orrore non risiede nei mostri o nei demoni, ma nella capacità dell'uomo di credere ciecamente in qualcosa, fino alle estreme conseguenze."
Genere cinematografico che gioca la sua narrativa mostrando filmati che paiono il ritrovamento di registrazioni amatoriali o che mostrano ciò che hanno catturato telecamere di sorveglianza o, ancora, realizzati con una simulata imperizia tale da far intendere che si tratti di marteriale amatoriale o di presa diretta girata a mano; con ciò, il Found Footage gioca magistralmente con una zona grigia rappresentazionale collocata tra realtà e finzione, facendo leva sul potere suggestivo dell'immagine "non mediata" che tanto affascina lo spettatore moderno sempre più educato alla fruizione di reel e short subitanei. Il found footage, quindi, si spaccia per realtà, simula la realtà, ivi compresa la precarietà tecnica, trasformandola in una virtù narrativa. Genere che sembra modernissimo e che ha avuto la sua consacrazione con the Blair Witch Project (1999), il Found Footage ha i suoi precursori: nato dalle ceneri del cinema documentaristico (cfr. Mondo e Shockumentary) ed evolutosi attraverso l'estetica degli home video (Cannibal Holocaust, 1980), ha padri "nobili" anche più remoti e controversi, quali Snuff (1975). Il Found Footage ha mostrato già da tempo una versatilità sorprendente (Cloverfield, 2008) e, in definitiva, un grande plus: la democratizzazione della produzione cinematografica. Tralasciando per un momento la qualità del prodotto filmico, questo genere filmico ha dimostrato che non servono effetti speciali milionari per ottenere una risposta emotiva da parte del pubblico; bastano pochi mezzi tecnici, una mano nemmeno troppo ferma (effetto "shacky cam") e, soprattutto, la suggestione dell'autenticità, in un incipiente processo di (con)fusione fra vero e falso che, oltretutto, la IA porterà a perfett compimento.
Nel pantheon dei mostri che popolano l'immaginario cinematografico, dopo il Vampiro che, con buon margine di certezza possiamo dire detenga il primato di popolarità, segue il Mostro di Frankenstein o, meglio, la sua Creatura, una terribile e spaesata sfida alle leggi di natura che, con il tempo, ha assunto essa stessa il nome del suo creatore. Nata dalla penna di Mary Shelley come allegoria della hybris scientifica, la Creatura del folle medico, di fatto, si è trasformata in un'icona pop che ha trasceso l'importanza della scrittrice stessa. Dopo i primi esperimenti filmici, certo di non minima rilevanza (Frankenstein di Edison, 1910), fu James Whale, con il suo Frankenstein del '31 e il sequel la Moglie di Frankenstein (1935), ad aver cristallizzato nell'immaginario collettivo l'aspetto della Creatura, grazie all'interpretazione magistrale di Boris Karloff. Quel volto squadrato, quelle cicatrici, quei chiodi nel collo sono diventati, come nota lo storico del cinema David J. Skal; "un geroglifico culturale universalmente riconoscibile quanto la Gioconda". La filmografia dedicata alla creatura è un affascinante caleidoscopio di interpretazioni: dalla serie della Hammer con Peter Cushing nei panni del dottore e Christopher Lee in quelli del mostro, fino alle versioni più simpaticamente eccentriche come Frankenstein Junior (1974) di Mel Brooks, in cui Gene Wilder e Peter Boyle orchestrano una memorabile parodia del mito, o il più teatrale Frankenstein di Mary Shelley (1994) di Kenneth Branagh, con Robert De Niro nei panni di una creatura sorprendentemente fedele al romanzo originale, ovvero tragica. La fortuna fra il pubblico della quale gode Frankenstein - chiamiamo anche noi il Mostro come il suo creatore - è da imputare alla sua intrinseca umanità. Come osserva la studiosa Elizabeth Young, Frankenstein è l'unico mostro del cinema classico che impara, evolve e, soprattutto, parla. Frankenstein non è solo un mostro che ci costringe a porci domande scomode sulla responsabilità della scienza e sui limiti dell'ambizione umana, ma ci pone di fronte a importanti questioni legate al nostro bisogno degli altri, alla solitudine, e anche alla rabbia che vive in noi e che si riversa sugli altri e su di noi medesimi. Che si tratti della versione pop-rock di Rocky Horror Picture Show (1975) o della riflessione esistenziale di A.I. - Intelligenza artificiale (2001) di Spielberg (che del mito di Frankenstein è una velata rilettura!) la creatura continua a parlarci, ricordandoci che, forse, i veri mostri non sono quelli cuciti insieme in un laboratorio ma coloro che li creano e poi li abbandonano al loro destino. E questo è un tema che, a dirla tutta, dice qualcosa anche della responsabilità di Dio nei nostri confronti.
Nel vasto panorama delle contaminazioni cinematografiche, esiste un territorio di frontiera in cui i pixel si trasformano in fotogrammi; si tratta dei Gamvie, crasi di "game" e "movie", pellicole nelle quali l'interattività digitale si cristallizza nella linearità della settima arte. Il Gamvie, particolarmente prolifico se si tratta del genere horror (il che lascia intendere il comune pubblico target dei due media), rappresenta un affascinante caso di studio sulla trasmigrazione dei linguaggi narrativi. Come osservava il filosofo e critico Marshall McLuhan: "il contenuto di un medium è sempre un altro medium". Riuscito esempio è Silent Hill (2006) che, nella metamorfosi da PlayStation a cinema, pur dovendo rinunciare ad elementi che rendevano più pregno il videogame, ha saputo mantenere attiva quella sensazione di claustrofobica solitudine, dannazione e orrore. Altro stranoto caso è quello rappresentato da Resident Evil (2002) che, pur allontanandosi progressivamente dalla fonte videoludica (o forse proprio per questo) ha saputo creare un proprio universo narrativo coerente, dimostrando come il DNA ludico possa evolversi in una nuova forma espressiva. Il Gamvie riflette efficacemente, anche se non sempre con film efficaci, la nostra epoca di confini sfumati tra reale e virtuale fondendosi in un nuovo linguaggio in un moto bidirezionale, visto anche il successo di videogiochi a tema horror. E, forse, in questo processo di traduzione intermediale, si nasconde una delle più interessanti evoluzioni del linguaggio dei media contemporaneo. Un linguaggio che ci ricordano che il terrore, sia esso in 8-bit o in 4K, parla sempre la stessa lingua: quella delle nostre paure più profonde, amplificate ora dal controller, ora dal grande schermo.
In un'epoca cinematografica di divismo e dolce vita nella quale la giovinezza e la bellezza erano (...e sono tutt'oggi) bene supremo, emerse Che fine ha fatto Baby Jane? (1962), "promemoria" della democratica vecchiezza e decesso che attende tutti, ivi comprese le ex divine in disarmo interpreti della pellicola: Bette Davis e Joan Crawford. Quel film inaugurò un genere che la critica battezzò Geriatric Horror o Thriller, poi anche noto, poco delicatamente, come hagsploitation (hag = megera) o Psycho-Biddy movies, letteralmente "film con la vecchia matta". Il genere, che fu criticato poichè esaltava cinicamente la perdita di fascino di ex dive - con addizione di squilibrio mentale! -, risulta psicologicamente interessante perché trasforma il naturale processo d'invecchiamento in un dispositivo ansiogeno, e come osservava il critico cinematografico Robin Wood, il vero horror risiede spesso in ciò che la società teme di diventare. Non solo. Come avviene per l'horror che mette in cattiva luce l'infanzia (il Giglio nero, 1956), il Geriatric Horror o Thriller ha l'ardire di rendere cinici e sgradevoli i soggetti anziani, i quali, solitamente, come i bambini, vengono rivestiti e protetti da una narrativa buonista. Robert Aldrich, con il film del '62, non solo orchestrò un grand guignol della senilità sfruttando la reale rivalità tra la Davis e la Crawford, ma divenne una sorta di manifesto proto-femminista sulla rappresentazione dell'invecchiamento femminile: Baby Jane Hudson interpretata dalla Davis, con il suo grottesco maquillage che evoca una bambola deteriorata dal tempo, incarna ciò che la società rifiuta ma non può fare a meno di guardare (e la meccanica della viralità social vive pesantissimamente di tale processo). Nonostante la maggior apertura della popolazione alle tematiche legate all'anzianità, coerente conseguenza col progressivo invecchiare della società occidentale, lo scarso numero complessivo di questi film ci suggerisce quanto poco il soggetto anziano "deturpato" piaccia al pubblico e, quindi, ai produttori, cioé quando, questa società youth-obsessed, sia, in realtà, refrattaria a voler essere esposta alle brutture della anzianità, all'eventuale malvagità dell'anziano, e preferisca mostrarsi aperta e tollerante agli anziani quanto più essi si mostrano giovanili, quanto più "portano bene i loro anni", quindi denegando le angosce di invecchiamento e morte. E il Geriatric Horror, invece, ci costringe a confrontarci con la nostra mortalità, a riflettere su come trattiamo i nostri anziani (e su come loro possano essere pessimi individui mai cresciuti saggiamente) e su cosa significhi invecchiare in una società che idolatra la giovinezza".
Il racconto di fantasmi è una delle più antiche tradizioni della cultura umana. I film che hanno i fantasmi come protagonisti, siano classiche "ghost story" o trattino gli spiriti come fenomeno accessorio, riescono sovente ad essere delle raffinate declinazioni del perturbante su schermo, in quanto i fantasmi fungono molto bene come strumenti metaforici per affrontare temi complessi come la perdita, il rimpianto, la colpa e la redenzione: "i fantasmi sono le ombre del nostro passato che si rifiutano di essere dimenticate" (Roger Ebert). Il cinema, e ben prima di esso la letteratura e l'arte figurativa, non poteva non misurarsi con il territorio dell'anima, in cui il dolore del distacco s'intreccia con la speranza della persistenza, cosa che, non raramente, si fa emotiva meditazione sull'amore che trascende la morte. "Vedere gente morta" diventa, soprattutto, risposta, benché inquietante, alla nostra domanda di fronte al mistero ultimo dell'esistenza. Nell'oceano delle produzioni horror relative al defunto che torna a veleggiare su questa Terra, esiste un particolare arcipelago di pellicole, per quanto non vastissimo, che ha fatto delle distese marine il proprio territorio di caccia prediletto. Si tratta di quel peculiare sottogenere etichettabile ghost ship movie (★), film sulle navi fantasma. Si tratta di pellicole nelle quali vascelli maledetti e relitti alla deriva diventano palcoscenici galleggianti, piccole navi spaziali perse in un cosmo d'acqua, ad intessere racconti umidicci e salmastri. Non è un caso che già nel 1933, con The Mystery of the Mary Celeste, Denison Clift abbia scelto di esplorare uno dei più celebri misteri marittimi della storia attraverso il prisma del cinema gotico, con un giovane Bela Lugosi, ancora fresco del successo di Dracula, nei panni di un sinistro marinaio. Il sottogenere ha conosciuto fortune e interessi alterni, facendo salpare pellicole quali la Nave fantasma (1980) di Alvin Rakoff con il suo vascello nazista, sorta di Overlook Hotel galleggiante, o Nave fantasma - Ghost Ship del 2002, che, pur con il suo splatter, omaggia l'estetica del gotico marittimo più classico con tutto il suo fascino da sentina, memore che "Il mare non restituisce tutti i suoi morti".
Nato dalle ceneri del romanzo gotico del XVIII secolo (cfr. "il Castello di Otranto" di Horace Walpole, 1764), questo genere filmico ha trovato la sua massima espressione, almeno nella sua forma più classica, negli studios della Universal degli anni '30 e della Hammer Film Productions degli anni '50 e '60. Il gotico cinematografico è caratterizzato da un'estetica distintiva che fonde elementi architettonici medievali, giochi di luci e ombre espressioniste (magnificamente esemplificati in la Casa dei fantasmi del 1963), e una tensione psicologica che anticipa molte delle ossessioni della modernità. Nodale, nella rappresentazione gotica, è il fatto che l'ambiente partecipi o sia un'estensione delle inquietudini dei soggetti che lo abitano; ragnatele, aree cimiteriali, notti illuminate dalla luna o da una fioca candela portata in giro per corridoi sinistri non sono che un riflesso delle angosce e dei tormenti di protagonisti, dalle ansie vittoriane sulla sessualità, alla hybris scientifica, per giungere sino alle moderne preoccupazioni relative alla tecnologia e all'alienazione sociale. Come notava il critico Carlos Clarens nel suo seminale "An Illustrated History of the Horror Film", il gotico cinematografico rappresenterebbe proprio: "il punto d'incontro tra le nostre paure ancestrali e le ansie della modernità". Gli archetipi del genere, che hanno plasmato l'immaginario collettivo ben oltre i confini del grande schermo, sono il castello maledetto (cfr. genere Old dark house), la presenza fantasmatica, lo scienziato pazzo, il vampiro, il Mostro di Frankenstein, il licantropo, la Mummia, la stregoneria, il demoniaco e il satanico. Fra i classici, impossibile non citare il capolavoro di casa nostra la Maschera del demonio (1960) di Mario Bava, con il suo bianco e nero di straordinaria potenza evocativa ed espressiva. Da citare anche il contributo fondamentale al genere di Roger Corman con il suo ciclo di adattamenti da Edgar Allan Poe, film nei quali Vincent Price incarna alla perfezione quella miscela di eleganza aristocratica e follia, marchio di fabbrica di questi film: i Vivi e i morti (1960) e il Pozzo e il pendolo (1961), per citarne solo due, rimangono esempi insuperati di come il gotico possa sposare raffinatezza visiva e tensione psicologica. Il fascino del gotico continua a sedurre nuove generazioni di cineasti e spettatori, confermando la sua inesauribile capacità di parlare alla nostra sensibilità.
Categoria NON idonea a minori di 18 anni e alle persone sensibili.
La produzione cinematografica si compone di alcuni territori raramente esplorati dalla critica ortodossa; eppure, si tratta di territori non privi di valore. In questa sezione, mi addentro nell'esame di alcuni film che, pur appartenendo nominalmente al genere porno (o, se non porno, presentano scene di sesso esplicito), trascendono le più comuni convenzioni dell'hardcore per raggiungere rilevanza cinematografica. Non si tratta solo di "difendere l'indifendibile" ma di evidenziare il fatto che un certo materiale, perlopiù etichettato come superfluo ed esecrabile, ha, in realtà, plasmato la società, così com'è il caso di Deep Throat (1972), opera che non solo ridefinì i confini della rappresentazione della sessualità al cinema ma divenne anche un autentico fenomeno culturale, attirando nelle sale un pubblico borghese e intellettuale precedentemente estraneo al genere. La mia selezione, limitata poiché Exxagon.it non si focalizza sull'hard, indica alcune pellicole che hanno saputo distinguersi attraverso peculiari scelte estetiche, innovazioni narrative o rappresentazionali, il tutto espresso attraverso la peculiare lente del sesso esplicito. Non si tratta di una mera catalogazione del proibito ma di un'analisi critica di quei rari momenti in cui la pornografia è diventata strumento di autentica espressione artistica.
Inquietante declinazione del thriller psicologico, un filone che affonda le sue radici nei timori più arcaici di invasione del proprio spazio vitale - che poi è estensione del nostro stesso corpo - ed espressione delle nostre difese psichiche che proiettano al di fuori la minaccia la quale, poi, torna a perseguitarci. Uno dei primi esempi del genere è sicuramente Gli occhi della notte (1967) con la splendida Audrey Hepburn nei panni di una nonvedente minacciata da un trio di bruti. Tuttavia, il vero punto di svolta arriva con Arancia Meccanica (1971) di Kubrick, in cui la celebre sequenza dell'invasione domestica diventa una scioccante metafora della decomposizione sociale con trasformazione degli oggetti domestici, simboli di comfort borghese, in strumenti di tortura psicologica. L'Home Invasion ha ribaltato l'adagio "casa dolce casa", rendendo perturbante ciò che è familiare e riflettono le ansie della classe media rispetto alla percezione di un crescente caos sociale che minaccia di penetrare le barriere del privato; quindi, è possibile rileggere l'Home Invasion come una metaforica angoscia di stupro, atto non a caso classicamente operato dai soggetti che invadono l'appartamento. Da Funny Games (1997) di Haneke a the Strangers (2008), questi film hanno progressivamente elaborato una grammatica visiva distintiva tramite la quale gli spazi familiari vengono sistematicamente "defamiliarizzati" attraverso una tensione crescente (cfr. con il concetto psicopatologico di "derealizzazione", per la quale le cose più familiari e comuni diventano estranee e irreali). Quindi, il sottogenere è particolarmente efficace nel sovvertire l'ideale borghese della casa come rifugio sicuro, trasformandola in una trappola claustrofobica nella quale le normali dinamiche di potere vengono brutalmente ribaltate: un'analisi che trova perfetta incarnazione in opere come Panic Room (2002) di David Fincher, in cui la tecnologia pensata per proteggere diventa paradossalmente fonte di prigionia. Interessante annotare, per offrire ulteriori possibilità di lettura, anche in seno ai cambiamento sociali relativi al genere, che la casa e le stanze sono ritenute, in chiave psicanalitica e archetipica, facenti capo alla donna e/o al suo corpo (quindi penetrare stanze, porte aperte o chiuse, ipotesi aperturale, ...). Un filone che continua a evolversi, dimostrando una sorprendente vitalità nel catturare le paure contemporanee legate alla vulnerabilità del sé e del proprio ecosistema nell'era della sorveglianza digitale e dell'erosione della privacy.
Nel catalogo filmico, e non solo in campo horror, esiste una categoria di titoli o, meglio, personaggi che si sono fatti icone per il più largo pubblico, villain talmente memorabili da trascendere il film stesso e diventare parte integrante dell'immaginario collettivo. Villain, e poi supermani, quali Jason Voorhees di Venerdì 13 (1980) o Michael Myers di Halloween (1978) stabiliscono il nuovo paradigma del mostro, un cattivo che, tuttavia, al contempo, è anche protagonista della simpatia del pubblico; un fenomeno che la professoressa Carol J. Clover (colei che ha teorizzato il concetto di "final girl" nello slasher-horror) definisce "villain-centrism". Impossibile non citare, poi, uno dei soggetti horror più iconici di sempre, quel Freddy Krueger "eroe" della saga nata con Nightmare - Dal profondo della notte (1984), che, con il suo guanto artigliato e il maglione a righe, rappresenta e incarna la cultura suburbana degli anni '80. Tuttavia, alla memorabilità iconica possono concorrere anche creature non umane. Come non si può definire iconico l'alieno xenomorfo di Alien (1979), o il Pennywise di It (1990) o, ancora, lo Squalo (1975) di Spielberg che incarna la paura dell'ingovernabile naturale, o Hannibal Lecter (il Silenzio degli innocenti, 1991) che incarna la terrificante possibilità che la massima raffinatezza culturale possa coesistere con la barbarie più estrema, o l'infernale sintesi BDSM di un Pinhead (Hellraiser, 1987), villain abitante un universo di piacere e dolore. In fondo, questi villain sono diventati le vere star dei loro universi narrativi, eclissando spesso i comprmari buoni, diventando brand, merchandising, costume di Halloween: da incubi notturni si sono trasformati in comfort zone pop. Jason, Freddy e compagnia bella hanno vinto la loro battaglia più importante, quella per l'immortalità.
L'infanzia e l'adolescenza come fattori chiave dell'esperienza filmica. Nel primo caso, il bambino può sovvertire la più popolare narrativa relativa all'infanzia che lo vede creatura di cristallo, pura e fragile; sfidando le aspettative culturali, i bambini, possono diventare radicalmente malvagi e l'infanzia può trasformarsi in qualcosa di perturbante e minaccioso. D'altra parte, come ha avuto modo di dire il maestro del brivido Stephen King: "Nulla è più spaventoso di un bambino che sorride mentre commette atrocità." Si tratta di un genere che può magnificare le ansie sociali sulla famiglia e l'educazione, trasformando i bambini in metafore delle paure adulte sulla perdita di controllo e sul fallimento genitoriale. Caso paradigmatico è la piccola Rhoda Penmark, protagonista de il Giglio Nero (the Bad Seed, 1956) di Mervyn LeRoy, incarnazione della perfetta psicopatica in gonnellina e trecce; il film, tratto dall'omonimo romanzo di William March, ha codificato molti dei tropi che ancora oggi caratterizzano questo sottogenere: l'apparente innocenza come maschera della malvagità, il contrasto tra aspettativa sociale e realtà, il terrore dei genitori di fronte alla mostruosità della propria progenie. Non si possono non citare i pargoli de il Villaggio dei dannati (1960), minaccia infantile collettiva e aliena che mescola Kids-horror a Sci-Fi. E, ancora, il più moderno Lasciami entrare (2008) evoluzione sofisticata del vampiro nella quale la figura del bambino-mostro viene complicata da sfumature esistenziali e romantiche, creando un ponte fra il neo-gotico e il cinema d'autore. Ad ogni modo, in questa categoria, non rientrano solo gli horror, nei quali l'infanzia è fonte di malignità o la patisce, ma pellicole di ogni genere nelle quali il tema dell'infanzia è strutturale. Stessa cosa valida per i teen-movie (★), film nei quali gli adolescenti non sono semplicemente presenti agli accadimenti - altrimenti quasi tutti i film slasher ricadrebbero nel novero! - ma la loro età dà senso assoluto alla narrazione che segue i ritmi e i valori della loro età. Da sempre, l'adolescenza è stata subordinata ad una narrativa pseudoscientifica e sociale che la vuole vedere come fase della vita necessariamente complessa e turbata. Ciononostante, lo stereotipo dell'adolescente problematico, perché carnefice o vittima, è stata accolto dalla cultura popolare, e quindi dal cinema, con grande entusiasmo. In questi film, l'adolescenza non è mai solo una fase biografica ma un limbo inquietante (e nel genere slasher e college, diventa uno stato mentale collettivo nel quale viene assorbito anche lo spettatore) in cui si materializzano le nostre paure più profonde sulla crescita, l'identità e il potere. Da Carrie - Lo sguardo di Satana (1976) di De Palma, caposaldo del genere che ha trasformato il disagio adolescenziale in pura energia telecinetica, fino alle più recenti esplorazioni come Denti (2007) di Lichtenstein, che gioca brillantemente con il mito della vagina dentata, questo sottogenere ha sempre mostrato una peculiare capacità di utilizzare l'horror come lente d'ingrandimento sulle difficoltà della crescita. Si tratta anche di trasformare le ansie generazionali in potenti metafore visive: il sangue (mestruale) in Carrie, così come la castrante vagina dentata nel film del 2007, ci parlano anche di empowerment femminile ma attraverso il body horror: non siamo distanti da ciò che fu definito da Carol J. Clover "trauma cinema", una narrativa cinematografica per la quale il corpo, nel caso specifico quello adolescenziale, diventa campo di battaglia per tensioni sociali più ampie. Non meno interessanti sono i teen-horror come Benny's Video (1992) di Haneke, che prendono in esame l'alienazione giovanile combinandola a una critica feroce verso la società mediatica, sottolineano le problematiche della generazione digitale e della famiglia, per cui l'adolescente diventa simultaneamente vittima e carnefice e, non di rado, l'adolescente diventa vettore dell'inefficacia della generazione adulta.
Questa sezione si propone di affrontare l'argomento LGBTQ+ da una prospettiva che non si fa bandiera di inclusività ma di semplice rilevazione di contenuto, lasciando, poi, che sia chi legge ad approfondire. Non troverete qui manifesti ideologici o proclami sulla diversità: l'obiettivo è semplicemente quello di catalogare e analizzare le pellicole del database che presentano elementi, personaggi o tematiche LGBTQ+, siano essi centrali o marginali nella narrazione, basta che siano evidentemente espresse o lo siano in forma implicita come mostrato, ad esempio, in Jennifer's Body (2009), in cui l'attrazione tra le protagoniste è parte integrante della storia senza mai diventarne il fulcro, o Miriam si sveglia a mezzanotte (1983) con David Bowie e Catherine Deneuve che ci mostra come l'amore vampiresco trascenda ogni convenzione. Talvolta esplicito, come in Saltburn (2023) o nei film di LaBruce (Otto; or, up with dead people, 2008), altre volte celato tra le righe, come nel caso del sottotesto omerotico di Nightmare 2 - La rivincita (1985). La bellezza del genere horror sta proprio nella sua capacità di essere un grande equalizzatore: davanti a uno slasher killer, ad un demone o a un'apocalisse zombie, tutti, con grande spirito d'inclusione, sono potenziali vittime. Non importa l'orientamento sessuale, l'identità di genere o qualsiasi altra caratteristica personale: la morte è inclusiva senza riserve. Nessuna celebrazione né una critica, quindi, ma un archivio ragionato di come il cinema horror e di genere abbia interpretato e rappresentato le tematiche LGBTQ+ nel corso degli anni.