the Red shoes
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Voto:
Un misterioso paio di scarpe, in effetti più viola che rosse, sembrano portare male a chi le indossa. Coloro che trovano queste scarpe non vogliono più staccarsi da esse e ne fanno il loro tesssoro. Una madre (Sun-jae), appena separata dal marito, trova le scarpe e ha parecchio da combattere con la piccola figlia Tae-su (Yeon-ah Park) che, a propria volta, sembra volere le scarpe. Apparizioni e incubi iniziano a fare capolino nella vita della donna mentre un giovane arredatore prova a capirci qualcosa.
LA RECE
K-horror sull'ossessione che, in realtà, nasconde (ma neppure troppo celata) la narrativa del conflitto femminile. Abito eccellente, incedere non sempre sicuro e seducente. Paura, però, sì.
Rivisitazione sud coreana, in chiave parzialmente gotica, della fiaba di Hans Christian Andersen, nonché del film di Michael Powell ed Emeric Pressburger Scarpette rosse (1948). Già dai tesissimi primi minuti, balza all’occhio la grande finezza rappresentativa, cosa che pare essere diventata una positiva costante nel cinema horror sud coreano. Il tetro e violento incipit del film, che ricorda un Lupo mannaro americano a Londra (1981) introduce un film di curata rappresentazione in cui si percepisce la volontà di evocare un'atmosfera da moderna fiaba nera. La cosa riesce perché vi è un sapiente uso delle luci e del gioco fotografico rispetto alla profondità di campo, con la tendenza a sfocare parti dell'inquadratura in modo da elicitare un senso di isolamento, cosa particolare per una città caotica come Seoul, proiettando il racconto in una dimensione irreale a cui contribuiscono anche tocchi surreali come una nevicata rossa e un incubo in cui si assiste a una vera e propria cascata di sangue. Impossibile non rintracciare il simbolismo di queste scarpe, pivot della trama, con un colore vivo che fa da contraltare ai cromatismi desaturati delle location: quelle bellissime e coloratissime scarpe portano con sé tutta una metafora fatta di pulsioni e repressione. Il desiderio delle scarpe, così femminili, nasconde la frustrazione di femmine trascurate dagli uomini (la moglie tradita, l'amica zitella), la frustrazione e l'odio indotti dalla gelosia per la ballerina del passato o la spinta a crescere senza frustrazioni materne. Questo senza aggiungere che la scarpa è freudianamente simbolo della vagina. È un film fatto di donne in cui gli uomini hanno un ruolo più marginale che negativo; è anche un film che parla male delle donne nella misura in cui mette in scena la narrativa conflitto fra esse piuttosto che la coalizione. Il maggior conflitto viene rappresentato dallo scontro madre/figlia che, in alcune scene, diviene particolarmente violento come poche volte si è visto al cinema, soprattutto per il fatto che di mezzo c'è una bambina molto piccola. Le scarpe, tuttavia, c'entrano poco: qui si tratta del lato oscuro dell'animo umano e di ciò che può fare uscire allo scoperto questo lato solitamente celato dietro bei vestiti, rossetti glossy e tacchi alti. Se le atmosfere e la dimensione stilistica funzionano bene, altrettanto non si può dire della struttura narrativa a volte poco lineare e, altre volte, prevedibile, ivi compresi i momenti di paura che richiamano il collaudato stile J-horror. Grande utilizzo degli effetti sonori a supportare la tensione, luci intermittenti, spettri e quant'altro. Non che la paura manchi, anzi, però siamo nel campo del già visto; anche il finale, che dovrebbe essere il colpo di scena, si perde fra i buchi logici. La paura, ad ogni modo, rimane e il lavoro degli attori, soprattutto della protagonista Kim Hye-su, è validissimo. Buon horror, insomma, pur rimanendo incerti circa il fatto che lo stile possa o no sopperire all'originalità.
TRIVIA
⟡ Nessun dato, per ora.
Titolo originale
Bunhongsin
Regista:
Yong-gyun Kim
Durata, fotografia
103', colore
Paese:
Corea de Sud
2005
Scritto da Exxagon nell'anno 2009 + TR; testo con licenza CC BY-NC-SA 4.0
