Kotoko
Voto:
Kotoko (Cocco) è una madre con evidenti disturbi mentali. All’ennesimo grave scompenso, il piccolo figlio Daijiro le viene sottratto e affidato alle cure dei familiari. L’incontro fortuito con lo scrittore Seitaro Tanaka (Shinya Tsukamoto), che si innamora masochisticamente di lei, sembra riportare un po’ di luce, così come sembra portare un po’ di serenità il canto. Sembra.
LA RECE
A pochi artisti come a Tsukamoto riesce di curare ogni angolo della propria opera e non farne un borioso e impotabile lavoro filmico. Lavoro di grande energia e delizatezza (e correttezza clinica) al contempo.
Non sono tanti i cineasti che possono permettersi di realizzare un film curando regia, sceneggiatura, fotografia, montaggio, recitazione, violenza visiva, crudezze concettuali, e sperare pure di non sfornare un timballo cinematografico indigesto. Tsukamoto, il genio dietro Tetsuo (1989) e a Snake of June (2002) è uno dei pochi che, evidentemente, può permettersi di osare tanto e riuscire a mettere sulla tavola qualcosa che si avvicina pericolosamente al capolavoro. Il soggetto del film è della stessa Cocco (Pulse - Kairo, 2001), al secolo Makishi Satoko, cantante giapponese che qui dà il dritto e il rovescio recitativo - ed è l’esordio! - per dipingere una schizofrenica paranoide da manuale psichiatrico, con allucinazioni floride davvero inquietanti, e questo piccolo figlio Daijiro in braccio che la si vorrebbe pregare di posarlo con delicatezza e fare tre passi indietro molto lentamente. Tsukamoto, invece, infierisce, e con la cinepresa a braccio, ci trasmette tutta la caoticità comportamentale di questa folle donna che perde la testa anche solo per coordinare le faccende in cucina; vertigine magistrale, quest’ultima. Solo il canto, mezzo d’espressione dell’attrice anche nella vita vera, sembra integrare quel doppelgänger borderline, quelle scissioni, quel buono e quel cattivo che non trovano sintesi, in sé e nell’altro, con tanto di telegiornale che inneggia costantemente alla cronaca nera ai danni di bambini. Poi, emerge il tenero scrittore Tanaka che tenta maldestramente di assorbire in sé, come si fa quando si cerca di prendersi in carico solo con il cuore il disagio mentale, il dolore di una donna così bella e fragile, tanto elegante all’esterno quanto frammentata dentro. Un ossimoro vivente. Mal gliene coglierà, povero Tanaka, ma è la cronaca di una morte relazionale annunciata. Siamo sempre dalle parti di Tetsuo ma, questa volta, non c’è il metallo, è tutto sangue e pelle sottile. E ben vengano gli stilemi del regista: i nervosismi di ripresa, i suoni fastidiosi, una certa violenza visiva che ha il suo apice ai danni del bimbo, la visionarietà, i silenzi e la confusione fra reale e mentale che è d’obbligo se si parla di psicosi. Piccolo film da follia d'appartamento (confronta con Repulsion, 1965), e forse anche un poco esistenziale, ma enorme nella portata, rispettoso della lettura psicologica, della donna, dell’uomo e, soprattutto, dello spettatore. Sì, ok, Tsukamoto resta un regista non per tutti ma, francamente, è un problema loro. Voto da spettatore in preda all'entusiasmo.
TRIVIA
⟡ Nessun dato, per ora.
Titolo originale
Id.
Regista:
Shinya Tsukamoto
Durata, fotografia
91', colore
Paese:
Giappone
2011
Scritto da Exxagon nell'anno 2015 + TR; testo con licenza CC BY-NC-SA 4.0
