il Mostro di St. Pauli
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Voto:
Fritz Honka (Jonas Dassler) passa le sue giornate brillocche nel sordido locale Guantone d’Oro; Fritz sogna rapporti sessuali con bellissime giovani teutoniche ma, sconvolto e brutticciolo com’è, può solo permettersi di abbordare derelitte alcolizzate come lui. Il vero problema, però, è che Fritz ha il vizietto di stuprare, uccidere, smembrare e nascondere pezzi di copri nel sottotetto.
LA RECE
Il realismo sociale di una derelitta Germania post-bellica si fa orrore quotidiano. Un'inquietante meditazione sulla solitudine, la devianza e le cicatrici nascoste della società riesce a riscrivere la narrativa generalmente "positiva" che incornicia il serial killing.
Sporco, brutto e cattivo. Lo psycho-horror che stavo aspettando, pur sapendo che i film vanno giudicati per ciò che ci mostrano e non per ciò che noi pensiamo debbano mostrarci. Piace, però, che cada per una volta la costruzione romantica cucita all’uncinetto quando si sceneggia la vita dei serial killer. Si accetta di buon grado che psicopatici immaginari siano eroi fascinosi; Hannibal Lecter su tutti. E' però bello che, ogni tanto, qualcuno osi il dipinto iperrealista di ciò che è davvero il serial killing. La criminologia ci insegna che il serial killer molto di rado è un soggetto azzimato, colto, cognitivamente brillante, socialmente integrato. Più facile, come in effetti è, che chi decida di trovarsi alle prese con persone da predare, uccidere, vilipendere e smembrare sia una persona sporca dentro e fuori. Il Mostro di St. Pauli, quartiere dei fattacci, è un putrido affaraccio visivo, sociologico ed esistenziale. Il film si apre senza tante iperboli sulle indaffaratezze di Honka che deve segare la testa di una donna nuda, per poi spalancarsi su un’umanità, reduce sconvolta della Seconda Guerra Mondiale, che suicida l’esistenza nell’alcol. Qualche spunto è ironicamente grottesco (il barista Ano che accetta il soprannome poiché non ne comprende il significato) ma il resto è pura tragedia umana e quell’orribile lucida furberia dello psicopatico che, pur psicologicamente sconvolto, sa bene come adescare e distruggere. In un locale che puzza di piscio e povertà solo a guardarlo, facile trascinarsi a casa donne disfatte che ti seguono come cani assetati se prometti loro il bicchierone della staffa. Fritz lo sa e, pur sognando angeliche biondone, si accontenta di relitti umani (di)sgraziati dalla vita e per loro stessa scelta, ché responsabilizzare, non colpevolizzare, è atto molto più rispettoso di etichettare le vittime come prive di ogni libero arbitrio e scelta; ennesima svalutazione, ennesima violenza. La scena della “schiava” Gerda (una strepitosa Margarete Tiesel) mostra come una semplice scintilla di libero arbitrio salvifico possa fare la differenza fra vita e morte, pur inserito in un’esistenza che rimane diroccata. D’altra parte, se le fragilità psicologiche fossero giustificazione non dialettica per ogni condizione vittimologica, altrettanto lo dovrebbero essere quelle del carnefice le cui azioni sono dominate da esse; cul-de-dac logico-clinico dal quale si esce solo attraverso un’analisi responsabilizzante che consente a tutti di riappropriarsi del Sé. Fritz sa come muoversi per celare i suoi peccatucci, ma fino a un certo punto: ha un debolissimo controllo degli impulsi, crede che bastino gli Arbre Magique per coprire l’odore di putredine, e ammassa corpi in casa dietro a uno scomparto. La sua vita non va da nessuna parte né lui consente che quella delle persone che entrano in contatto con lui progredisca. Poi, Honka lo hanno acciuffato, chiaro; il gioco non poteva andare troppo avanti quando il crimine del secolo l’organizza uno sull’orlo del coma etilico. Grande prova attoriale di tutti. Jonas Dassler offre una performance fisicamente trasformativa che fa pensare al Niro o al Bale delle pellicole più fisicamente provanti ma filtrato attraverso una lente grottesca che ricorda il personaggio di Peter Lorre in M - Il mostro di Düsseldorf (1931); la sua interpretazione di Honka è un tour de force di deformità fisica e morale che si inserisce perfettamente nella tradizione espressionista tedesca fino a richiamare i soggetti umani orribili descritti da Erich von Stroheim (Rapacità, 1924). Il bar del titolo diventa una sorta di purgatorio alcolico privo di qualsiasi romanticizzazione; la fotografia di Rainer Klausmann trasforma ogni inquadratura in un esercizio di squallore stilizzato, creando quello che il critico Andreas Kilb ha definito "un'estetica della repulsione". Il Mostro di St. Pauli non è un film ricco di colpi di scena e salti argomentali: è la semplice circolarità delle azioni del folle, ma la vita di un serial killer, specialmente di quella fatta, si riduce spesso ad una miserrima circolarità facili spiegazioni psicologiche o redenzioni morali, preferendo immergere lo spettatore in un grottesco mondo di degrado. Voto dopato, proprio per quello che der Goldene Handschuh è, e non per quello che avrei voluto vedere, e che il film mostra in un’unica circostanza, con quella lacrima sul volto di Gerda che le ha salvato la vita. E' lo stesso mondo di Buttgereit (Nekromantik, 1987) e Kargl (Angst, 1983), solo più controllato nella messa in quadro, nondimeno, caveat per i più sensibili, il film è decisamente crudo.
TRIVIA
Fatih Akin (1973) dixit: “Aumentare il numero dei miei spettatori è un mio obiettivo. Il cinema è un'esperienza collettiva. Molte persone si siedono insieme, ci sono molti posti a sedere e tu vuoi che quei posti si riempiano. Non sono così egoista da dire: “No, voglio solo fare un film per me, non mi interessa”. Non è vero. Di sicuro li faccio per me ma spero di poterli condividere con quante più persone possibile” (IMDb.com).
⟡ Il film si ispira all’omonimo romanzo di Heinz Strunk pubblicato nel 2016 che ricostruisce la vita di Friedrich “Fritz” Paul Honka. Fritz, nato a Lipsia nel 1935 e finito presto nei campi di concentramento (il padre venne associato ai comunisti), una volta libero non godette di una buona istruzione né di cure familiari: il padre morì per alcolismo nel ’46; la madre, invece, era alle prese con la cura degli altri otto fratelli. Non bello, per lo strabismo e quell’incidente stradale che gli devastò il naso, Fritz si sposò comunque due volte e due volte si separò; poi, già in preda ai fumi dell’alcol, violentò la sua convivente Irmgard Albrecht; pagò una multa ma l’accusa di stupro decadde. Incapace di strutturare relazioni affettive per il vizio del bere, Honka iniziò a cercare sesso fra le prostitute della Reeperbahn di Amburgo. Nel dicembre 1970 il primo omicidio: Gertraud Bräuer, parrucchiera 42enne ed occasionalmente prostituta. Fritz fece a pezzi il corpo e sparpagliò nella zona le parti anatomiche. La polizia identificò il cadavere ma nessun killer venne preso. Il secondo omicidio quattro anni dopo, nel 1974, e poi la tipica accelerazione omicidaria dei serial killer: altri due omicidi, nel ’74 e nel ’75. I corpi furono fatti a pezzi e nascosti nel sottotetto e in altre parti della casa. Nessuno denunciò la sparizione delle donne che Honka sceglieva fra le derelitte senza denti perché temeva che, durante i rapporti orali, le prostitute potessero mutilarlo. Non fu per le lamentele dei condomini relative alla pazzesca puzza che veniva dall’appartamento di Hoka che l’uomo fu scoperto (puzza che lui cercava maldestramente di coprire con spray vari) ma per un casuale incendio nello stabile. Scoperto un tronco di donna dai pompieri, Fritz fu subito arrestato. Condannato a 15 anni di reclusione in un ospedale psichiatrico, si ritenne che il suo etilismo fosse un fattore attenuante, in quanto limitava le sue capacità mentali. Rilasciato nel 1993, Honka morirà in una casa di riposo il 19 ottobre 1998.
Titolo originale
Der goldene handschuh
Regista:
Fatih Akin
Durata, fotografia
115', colore
Paese:
Germania, Francia
2019
Scritto da Exxagon nell'anno 2021; testo con licenza CC BY-NC-SA 4.0
