Naked blood

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Voto:

Il giovane e intelligente Eiji (Sadao Abe), figlio della dottoressa Yuki Kure (Masumi Nakao), riesce a sviluppare, nel privato della sua cameretta, un antidolorifico all'avanguardia che, secondo le intenzioni, dovrebbe eliminare il male dal mondo. Il ragazzo inietta con un sotterfugio il liquido “my son” a tre ignare donne: una ghiottona, una vanitosa e una timida ragazza che non dorme mai. Le conseguenze non saranno delle migliori.

LA RECE

Figlio della nouvelle vague dell'orrore giapponese post-industriale (vedi Tetsuo), il film traccia il solco per il body horror poi frequentato da Sion Sono e Takashi Miike, ma di per sé, oltre allo shock valure, rimane poco.

Una festa splatter orchestrata da un regista che avrebbe affermato: "Voglio fare un film che faccia impazzire gli spettatori, che li spinga a commettere un omicidio" (Hunter, 1999). E vabbè. Prima, però, andrebbe girato un film con un plot solido e tutte le sue cosine apposto, non solo un gore-fest qual è Naked blood derivato dal precedente mediometraggio dello stesso Sato, Pleasure kill (1987). Se la maggior parte della forza di questa pellicola si basa sul sangue, non può essere positivo il giudizio per un film che dura 76 minuti e che, nei primi 50, non mostra nulla di realmente splatter. Coloro che avranno la pazienza di attendere, e di sorbirsi dialoghi insipidi e scene bizzarre forzatamente arty, riceveranno i seguenti premi: una donna che si frigge la mano nella pentola come fosse tempura e quindi si sgranocchia un dito, la stessa donna che si taglia parte della vulva e se la mangia, la medesima cosa fa con un capezzolo e quindi con un bulbo oculare; quest’ultima la scena clou di un film altrimenti noioso. Il regista ricorre a immagini oniriche e ricercate, alle ossessioni della carne squarciata e penetrata con un gusto quasi cronenberghiano ma il paragone suona irrispettoso. La critica sociale che s’incarna nella solitudine di Eiji e nella vanità della ragazza senza nome è suggerita ma non approfondita. Alcune idee che strutturano il film rimangono nella sfera della pura bizzarria senza che venga data una spiegazione sensata, come succede relativamente al rapporto che intercorre fra Rika e il cactus. L'idea base di una sostanza che trasformi il dolore in piacere non è così originale e gran parte dello svolgimento delle azioni ricade nell'ambito dell'inverosimile. La pecca maggiore, tuttavia, rimane la sceneggiatura e la lentezza del racconto che mettono a dura prova anche lo spettatore meglio motivato. Va apprezzato, se non altro, il fatto che Sato abbia voluto inserire l’eccesso visivo all'interno di un racconto non propriamente banale o puramente exploitation, anche se viene il dubbio che il regista volesse ambire all’art house finendo per propinare il solito armamentario ultragore. Il prodotto finale, che ha comunque l'aspetto di qualcosa di poveristico causa la recitazione rigida dei pochi attori, è la dimostrazione che non tutte le pellicole che vengono dall'Oriente sono capolavori. Sconsigliatissimo al mainstream, sconsigliato agli appassionati di horror. Gli amanti dell’ultragore ci buttino un bulbo oculare.

TRIVIA

Hisayasu Sato (1959) dixit: “Realizzo sempre opere di intrattenimento che possono essere espresse, in quella specifica maniera, solo da me” (channel.slowtrain.org).

⟡ Nessun dato, per ora.

Titolo originale

Megyaku: Akuma No Yorokobi

Regista:

Hisayasu Sato

Durata, fotografia

76', colore

Paese:

Giappone

Anno

1995

Scritto da Exxagon nell'anno 2006; testo con licenza CC BY-NC-SA 4.0

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