Ghost stories
Voto:
Lo psicologo Philip Goodman (Andy Nyman) sbugiarda il paranormale secondo il modello scettico di un precedente psicologo, Charles Cameron, scomparso misteriosamente. Cameron, però, non è morto e contatta Philip chiedendogli di indagare su tre storie che sfidano ogni scetticismo. Tony Matthews (Paul Whitehouse), un guardiano notturno con una difficile storia familiare, si trova a vigilare un inquietante ex manicomio femminile. Simon Rifkind (Alex Lawther) rimarrà bloccato in macchina in un bosco abitato da una mostruosa creatura. Mike Priddle (Martin Freeman) è un gentleman borghese tormentato da un poltergeist mentre la moglie è in ospedale aspettando di partorire.
LA RECE
Spooky fest di tutto rispetto, in bilico fra il moderno e il vecchio modo di fare cinema britannico. Portmanteau horror di ottimo livello e belle anche la wraparound story.
Portmanteau basato sull’omonima pièce teatrale, scritta e diretta dal duo Nyman e Dyson, messa in scena per la prima volta a Liverpool nel 2010, successo di pubblico tale da guidare alla riduzione cinematografica all’ombra della lezione inglese di fare cinema di paura, soprattutto pensando alle produzioni Amicus a partire da le Cinque chiavi del terrore (1965). Debutto alla regia per Nyman e Dyson, i quali ordiscono uno spooky-fest di tutto rispetto che, a differenza della maggior parte dei portmanteau dei tempi che furono, si giova di una storia di giunzione fra gli episodi di buonissima qualità nonché superiore, per lo meno, all’episodio centrale, fino a un finale surreale che permette una completa rilettura delle avventure dello psicologo Goodman. Il limite, come fu per il rilancio della Hammer tramite the Woman in black (2012), è che lo spettacolo si riduca a una fiera di trucchi vecchi e nuovi per far balzare sulla sedia lo spettatore. Ghost stories evita, almeno in parte, queste banalità grazie a una storia solida dagli accenti metafisici e bizzarri, nonché una tensione che non conosce cali durante tutto il corso del film. Validissima la resa attoriale di Nyman, la scrittura di certi dialoghi di una profondità esistenziale non comune, e la cura della fotografia scura e livida. Il plus principale in quest’horror rarefatto resta, tuttavia, la volontà di spaventare lo spettatore, e ciò fin dai titoli di testa. In questo, la pellicola funziona egregiamente a patto di fruirla nella corretta condizione: Ghost stories, per la sua attenzione all’effetto sonoro, al particolare visivo, a una certa lentezza tipica del cinema britannico, non è il film che va visto in compagnia o in piena luce con tanto di distrazioni. Questo portmanteau va goduto da soli o, comunque, al buio e, ancor meglio, utilizzando delle cuffie in modo da non perdersi il flebile suono della brace di una sigaretta quando la telecamera vi si avvicina o, ancora, i profondissimi silenzi che rendono la tensione quasi insostenibile. In queste condizioni, e solo in queste, è virtualmente impossibile che Ghost stories non regali allo spettatore ben più di una manciata di severi spaventi meritando in pieno tutti i soldi spesi per essere saliti sulle montagne russe di una pellicola in bilico fra la modernità e il recupero di un cinema che fu.
TRIVIA
Jeremy Dyson (1966) dixit: “È stato un viaggio piuttosto lungo che è iniziato quando, nella primissima settimana in cui abbiamo scritto il pezzo teatrale, abbiamo intuito, man mano che ci inventavamo la storia, che aveva un potenziale cinematografico. Ma, a quel tempo, eravamo abbastanza disciplinati e ci dicevamo: […] tutta la nostra attenzione deve rimanere sul pezzo teatrale e quell’altro pensiero lo parcheggiamo altrove. E poi, quando il pezzo teatrale è stato trasferito nel West End, e c'era un sacco di clamore intorno ad esso, abbiamo avuto un'offerta di Hollywood da un grande studio. Questo ci ha colto di sorpresa, ma non ci sarebbe stato permesso di dirigerlo. Si sarebbe trattato di scrivere la sceneggiatura e poi consegnarla, e sapevamo che non era giusto, non ci avrebbe soddisfatto. Non era lo spirito con cui c’eravamo prefissati di fare lo spettacolo” (ourculturemag.com).
Andy Nyman (1966) dixit: “C'è qualcosa di veramente interessante nella mia esperienza mentre guardo un film in cui c'è molta computer grafica, e sono sicuro che è una sorta di esperienza universale: c'è una disconnessione, perché non ti colpisce a livello emotivo. Accetti come un dato di fatto tutto ciò che accade sullo schermo e questo stesso principio nega il valore di ciò che è mostrato. Come un trucco magico, diventa nullo e vuoto” (ourculturemag.com).
⟡ Molto del materiale diffuso prima dell’uscita del film, quale ad esempio il trailer UK, riportavano il titolo in maniera volutamente scorretta, Ghost Storeis, secondo il principio, ripetuto più volte nel film, per cui “la mente vede ciò che vuole vedere”.
⟡ I nove numeri nascosti nel tunnel di cui si parla alla fine appaiono durante il film a partire dai credits iniziali ed arrivando alla numerazione delle celle nel manicomio femminile.
Titolo originale
Id.
Regista:
Jeremy Dyson, Andy Nyman
Durata, fotografia
98', colore
Paese:
UK
2017
Scritto da Exxagon nell'anno 2020; testo con licenza CC BY-NC-SA 4.0
