The ABCs of Death 2
Weird
Voto:
Film ad episodi
LA RECE
Risultato globale non è meno gradevole di quanto fatto con la precedente pellicola.
Ant Timpson e Tim League tornano al progetto di the ABCs of death (2012): 23 cortissimi affidati ad altrettanti registi che possono esprimersi in libertà partendo da un tema horror che deve avere come vincolo la lettera dell’alfabeto assegnata loro. Non tutti gli artisti sono di prima categoria ma abbiamo comunque Bill Plympton, Larry Fessenden e Vincenzo Natali. Con ordine. Amateur di E.L. Kats (Cheap thrills, 2013) vede un killer pianificare una perfetta esecuzione ma, nella realtà, poco andrà come da programma. Corto ben fatto con un finale discreto; tuttavia si ricordano soprattutto le due modelle ignude che si baciano. Badger di Julian Barratt, attore più che regista, vede uno sgradevole documentarista fare la fine della preda di un mutante nei pressi di una centrale nucleare; il mutante non si vede mai ma lo smembramento sì. Il tono è ironico, il risultato è debole. Capital Punishment di Julian Gilbey (A lonely place to die, 2011) vede un gruppo di cittadini privati farsi giustizia da sé condannando a morte un presunto pedofilo. Il corto non strabilia, però c’è una scena di decapitazione fra le più crude mai viste. Insomma, sui limiti della giustizia sommaria. Deloused di Robert Morgan (Bobby Yeah, 2011) è un corto animato in stop-motion di rara efficacia orrorifica. Sinistro, onirico e visivamente sgradevole lascia alla suggestione e non alla logica il suo effetto. Il livello di bizzarria è notevole e, se di horror si voleva parlare, Morgan colpisce nel segno. Artista i cui corti andrebbero esplorati dagli amanti di cinema weird. Equilibrium di Alejandro Brugués (il Cacciatore di zombie, 2011) descrive ironicamente la frattura dell’idillio di due naufraghi quando nella loro solitaria vita irrompe una donna. Nulla da notare a parte gli ingegnosi piani sequenza di una certa lunghezza. Uno degli episodi più deboli. Falling degli israeliani Aharon Keshales e Navot Papushado (Big bad wolves, 2013) la mette sul piano del conflitto che da decenni fiacca le loro terre. Una bella militare e un giovane palestinese si confrontano; il male, forse, nasce solo dall’incomprensione. Sì, però il corto non avvince. In Grandad il regista Jim Hosking costruisce un cortissimo che vede il bizzarro conflitto fra familiari recuperando i protagonisti del bizzarrissimo the Greasy strangler (2016) di cui si consiglia la visione. Di per sé, il corto ha poco senso. Head games di Bill Plympton (I married a strange person, 1997) propone, nel ben noto stile del fumettista, una feroce metafora dell’amore che inizia con un tenero bacio fra amanti e finisce con una letterale guerra fra le teste degli stessi, senza tregua visiva, senza speranza di salvezza per nessuno. Plympton sempre magistrale anche se non somministra nulla di più di quanto abbia già espresso altrove. Invincible del filippino Erik Matti mette in scena un gruppo di familiari che cerca di sbarazzarsi dell’ava 120enne che proprio non ne vuole sapere di morire e mollare l’eredità. Corto poco incisivo; dello stesso regista meglio vedersi Honor thy father (2015), storia di una famiglia caduta in rovina per essere finita in uno schema Ponzi. Jesus del brasiliano Dennison Ramalho (Morto não fala, 2018) si spende per la causa gay: un uomo viene rapito e torturato perché omosessuale. I suoi aguzzini si sentono investiti da un ruolo divino ma i demoni sono loro e al torturato compaiono le stigmate. A liberare il gay ci pensa un Gesù decisamente inusuale. O così pare. Knell, della lituana Kristina Buozyte (Kolekcioniere, 2008) e del suo sceneggiatore Bruno Samper, risulta un corto poco comprensibile ma è particolarmente efficace nel creare una situazione iniziale davvero inquietante che vede la protagonista osservare le azioni efferate compiute in un condominio antistante a quello in cui vive per poi essere fissata contemporaneamente da tutti gli assassini finché qualcosa si presenta alla porta. Il corto, a questo punto, sfuma nell’incomprensibilità ma l’atmosfera da incubo della prima parte vale la visione. Legacy del nigeriano Lancelot Oduwa Imasuen, con ottanta film in curriculum e a crescere, è proprio un film di laggiù. Per realizzazione e senso, difficile che possa piacere a noi di quaggiù. Bizzarro e un po’ trash con il mostro Ubini da film di serie-Z. Masticate di Robert Boocheck (Seven hells, 2014) si gioca tutto su un ironico uso del rallenty fino al finale fulminante che, però, fa del corto un simpatico esercizio di stile più che una storia. Non il migliore della lista. Nexus di Larry Fessenden (the House of the devil, 2009) vede un’umanità varia incrociarsi la sera di Halloween per andare incontro ai festeggiamenti; con inquietante sincronicità andranno incontro alla morte. Qualche spunto interessante, soprattutto all’inizio. Ochlocracy di Hajime Ohata (Metamorphosis, 2011) mette in scena qualcosa che mai prima si era vista nonostante il profluvio di zombi-movie: gli ex morti viventi, riacquistata una salute comunque malferma, portano in tribunale coloro che, per salvarsi la vita, li hanno maltrattati o uccisi: una donna alla sbarra verrà accusata dalla propria figlioletta. Originalissima metafora dell’oclocrazia, ovvero la gestione della cosa pubblica operata dalla folla che deriverebbe conseguenzialmente dalla democrazia secondo ciò che insegna il paradigma filosofico dell’anaciclosi. Regia mediocre ma corto intelli-gente e originale. P-P-P Scary di Todd Rohal (the Catechism cataclysm, 2011) pare, sulle prime, un comico siparietto con tre detenuti che dialogano come fossero i Tre Marmittoni poi, però, l’incomprensibile divenire degli sfilacciati eventi assume il contorno di un incubo che sarebbe piaciuto a David Lynch; non il miglior pezzo ma a suo modo inquietante. Dello stesso regista recuperate il corto Rat Pack Rat (2014). Questionnaire di Rodney Ascher (the Nightmare, 2015) vede un intelligentone ficcarsi nei guai dato che il suo brillante cervello fa evidentemente gola ad alcuni ricercatori poco etici. Brillante il protagonista ma non il corto, uno dei peggiori. Roulette di Marvin Kren (Ghiacciaio di sangue, 2013) lascia più interrogativi di quante risposte offra: due uomini e una donna si sfidano ad una tesissima roulette russa ma, forse, il problema sta al di fuori del sottoscala nel quale si sono rifugiati. Valida l’atmosfera in bianco e nero ma solo quella. Split di Juan Martínez Moreno (Due tipi duri, 2003) si configura come un brevissimo thriller a tinte più che forti con twist finale riuscito sia a livello di brutalità visiva, sia rispetto al veloce plot che si apre e si chiude senza lasciare dubbi sull’accadimento. Non male. Torture-Porn delle gemelle omozigoti Jen e Sylvia Soska (American Mary, 2012) parte da una buona premessa: la donna oggetto che viene vittimizzata, ma non senza la complicità della stessa, in produzioni video violente. In questo caso la donna non ci sta più di tanto. Prima parte intrigante, seconda parte da Rape & Revenge tentacolare meno brillante benché energica. Le Soska sisters restano più conturbanti delle loro creazioni. Utopia di Vincenzo Natali (Cube, 1997) dipinge con algida eleganza una società nella quale essere non belli costa la vita in un modo efficiente e igienico. Anche del corto si preferisce la forma che la sostanza dato che l’idea non pare originalissima ma Natali esegue senza inciampi. Vacation di Jerome Sable (Stage Fright, 2014) vede due giovani in vacanza nel Sud Est asiatico divertirsi fra droga e prostitute mentre uno dei due cerca di dipingersi come il fidanzato modello alla ragazza in videochiamata. Chi la fa l’aspetti. Non privo di violenza, nudi e sadismo, il corto è tuttavia insipido nella sostanza. Wish di Steven Kostanski (the Void - il vuoto, 2016) porta due ragazzini nel loro gioco preferito, Champions of Zorb, che poi somiglia tanto all’universo di He-Man degli anni ’80 però più sanguinario e lugubre. Finirà maluccio. Il corto è sufficientemente strano e ben realizzato da rimanere impresso e Kostanski si conferma un regista originale con il culto per una certa decade. Vedere anche Manborg (2011). Xylophone di Julien Maury (À l'intérieur, 2007) si limita a un grandguignolesco finale che vede una bambina completamente ridotta all’osso, dopo che il suo giocare con uno xilofono ha fatto uscire pazza la nonna che, evidentemente, tanto a posto non era neppure prima. Corto di rara pochezza. Youth dell’effettista Sôichi Umezawa è una stupefacente ed energica fiera di effetti speciali ai danni di due genitori che, trascurando la figlia, l’hanno delusa al punto della vendetta. Interessante il tema anche se non originale ma svolto in modo assolutamente originale. Uno dei corti migliori. Zygote di Chris Nash, che ha prodotto la Skinfection Trilogy fruibile su Vimeo, realizza un corto ancora una volta relativo alle mutazioni del corpo, in questo caso una gravidanza assurda con un finale ad altissimo tasso splatter; non manca nel racconto una triste considerazione sulle donne abbandonate dal partner che, per compensare, si legano in maniera patologica ai figli e non permettono loro di vivere liberamente.
The ABC’s of death 2, come atteso, è disomogeneo nei risultati e i registi più quotati, ancora una volta, offrono i lavori meno incisivi. Altri corti, tuttavia, sono indimenticabili e il risultato globale non è meno gradevole di quanto fatto con la precedente pellicola. Il portmanteau ideato da Timpson e League non è adatto a tutti e neppure al comune appassionato di horror; qui occorre una certa dose di piacere per le pellicole weird. Si vocifera di un the ABC’s of death 3: teach harder ma, per ora, abbiamo solo l’apocrifo the ABC’s of death 2.5 (2006).
TRIVIA
⟡ Nessuna nota, per ora.
Titolo originale
Id.
Regista:
AAVV
Durata, fotografia
125', colore
Paese:
USA, Nuova Zelanda, USA, Canada, Israele, Giappone
2014
Scritto da Exxagon nell'anno 2016; testo con licenza CC BY-NC-SA 4.0