Femina ridens

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Voto:

Il gagliardo e ricco dottor Sayer (Philippe Leroy) rapisce Maria (Dagmar Lassander), impiegata dell’ufficio stampa, e ne fa la protagonista delle sue fantasie sadiche che, però, velocemente si sovvertono.

LA RECE

Discorso controculturale che poi, a ben vedere, suona più borghese che altro. Resta fascinoso il décor ultra-pop e il meccanismo mystery. In odore di cult a partire dal titolo azzeccato.

Film di quelli che non se ne possono più fare così, con pop-art dappertutto, scenografie futuriste, musica di Stelvio Cipriani e velleità controculturali. All’interno di una matrice giallo-thriller, il prettamente televisivo Schivazzappa spalanca la vagina dentata dell’artista Niki de Saint Phalle pronta a serrarsi a tagliola sul tema dell’eterno scontro fra generi, qui esasperato dalle posizioni violente di lui e manipolative di lei. Un po’ telefonato, per chi abbia una qualche dimestichezza con il cinema di genere di quegli anni, l’inversione dei ruoli e il tragico finale col maschio che teme la castrazione e, proprio per questa tensione fobica, finisce per subirla. La prevedibilità, tuttavia non toglie forza all’assunto che vuole il conflitto fra i generi quasi biologico prima ancora che culturale, quindi, insopprimibile. Un Philippe Leroy biondino manifesta grossolanamente la propria virilità, catturata dagli scatti della Lassander, e poi confessa che il suo zenit erogeno è ammazzare le donne, almeno idealmente; perciò segrega e maltratta Maria per farne la sua vittima. Tuttavia, l’angoscia di castrazione (ma soprattutto la dinamica sado-masochistica) gli impedisce di sopprimere la donna subordinata che regge il suo sadismo (confronta con Feed, 2005). Così, Sayer fallisce dove la mantide Maria, non meno sadica del maschio, sarà capace di vincere aprendo angosciose riflessioni sulla radicale supremazia e autonomia delle donne dall’uomo. Previsione esagerata né concretamente reale ma l’esasperazione del disequilibrio faceva notizia e, a molti, dava e dà da mangiare. Che, a ben guardare, se c’è della misoginia è proprio in quel finale piuttosto che nelle sequenze exploitation precedenti. Film quasi d’esordio per Schivazappa che, a monte delle saturazioni tematiche e simboliche, si fa ricordare per lo sperimentalismo visivo e il décor pop-psichedelico. Questo di davvero avanguardistico. Gli eccessi contenutistici e il cinismo del finale, le cui meccaniche erano già emerse con il sexy-giallo di Lenzi e compagnia bella, rischiano, però, di suonare borghesi più che controculturali. Ma, anche lì, ci mangiavano, e ci mangiano in molti. Comunque in odore di cult, se fruito nella versione uncut, e da vedere in double-bill con la Morte ha fatto l'uovo (1968).

TRIVIA

Dagmar Lassander ricorda: “Schivazappa era un intellettuale, non una persona eccessivamente allegra. Sul set era sempre molto impegnato, molto preso. Non rendeva particolarmente facile il lavoro, soprattutto a una che poi non parlava italiano, che aveva difficoltà di comunicazione. C’era un’atmosfera molto severa sul set, questo lo ricordo bene. […] il regista mi faceva soffrire nelle scene, mi buttava nelle piscine con l’acqua gelida, mi metteva attaccata con le manette per otto ore: mi faceva soffrire fisicamente. Non fu per niente facile” (Nocturno dossier 36; 2005).

⟡ Nessun dato, per ora.

Regista:

Piero Schivazappa

Durata, fotografia

86', colore

Paese:

Italia

Anno

1969

Scritto da Exxagon nell'anno 2018; testo con licenza CC BY-NC-SA 4.0

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