Piercing

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Voto:

Il brav’uomo di famiglia Reed (Christopher Abbott), forse così bravo non è: il suo sogno è uccidere una donna, cosa che organizza ingaggiando una prostituta sacrificabile. All’appuntamento in albergo, però, non si presenta la ragazza prenotata ma un’altra, Jackie (Mia Wasikowska), sadomasochista della prima ora. Il gioco al massacro prende una piega strana: la moglie di Reed, Mona (Laia Costa), è inaspettata complice dei sogni omicidari del marito, Jackie è più pericolosa del preventivato e Reed inizia a rammentare l’orribile passato vissuto con la madre.

LA RECE

Nell'interstizio fra l'estetica del nostro giallo e l'horror psicologico orientale a dare un contributo sulla trasmissibilità del trauma; ovvero, come il danno psicologico si replica attraverso il contatto. Interessante, fascinoso ma impermanente.

Film del videoclipparo Pesce poi regista del remake the Grudge (2020) e, prima, del più interessante the Eyes of my mother (2016). Piercing è un film di un certo fascino e sicura bizzarria nelle sue singole parti che, però, non riescono ad amalgamarsi in un tutt’uno convincente. Lo spettacolo si apre, e continua, con le gradevoli immagini di una New York City (o così sembra) in art decò e colori pastello, il tutto accompagnato dal suggestivo score de la Dama rossa uccide sette volte (1972) alle quali, poi, seguiranno quelle di Profondo rosso (1975) e Tenebre (1982). Il soggetto deriva da un romanzo del giapponese Ryu Murakami e la carrellata depalmiana sulle finestre dei palazzi parrebbe farci intendere che la trama sarà quella di una spiata nella vita privata di una persona comune, presa a caso fra tutti quegli appartamenti. In realtà, Piercing non gioca con il grottesco nascosto nella realtà quotidiana ma istruisce una sommatoria di fattori grotteschi relativi agli incubi edipici di un uomo - costruito, ammissione di Pesce, sul Monsier Hulot di Play time - tempo di divertimento (1967) - ai parassiti schifosi, alla merda che straborda dalla tazza, a donne borderline, a riferimenti al cinema di genere, a scenografie lussureggianti e pure al premiato telefono Iskra Eta 80 ed Ata 40. Fascinoso, certo, ma strano per essere strano, anche per black-humor, nonché furbetto nel suo modo di richiamare l’attenzione del pubblico al quale è diretto. Manca, però, la storia o, meglio, una narrazione che porti a sviluppi di senso. Tutto si riduce a un esercizio di stile o ad uno strano incubo visivo; cosa che, tutto sommato, potrebbe anche starci. Vedibile ma senza quelle qualità che lo renderebbero gradevolmente rivedibile. Bravi gli attori, comunque. Abbott proietta una dualità affascinante: la sua interpretazione suggerisce sia sociopatia calcolata che profonda vulnerabilità, ciò che il teorico cinematografico Thomas Elsaesser ha identificato come "il paradosso del sociopatico postmoderno: simultaneamente iperrazionale e completamente irrazionale". E non c’è gara erotica fra la scena del piercing al capezzolo, da cui il titolo, o altre stranezze assortite, e la normalità di una donna in slip domestici che si alza dal sonno e va al frigo, trascinando con sonnolenza il suo corpo imperfettamente perfetto. Un punto in più solo per quella scena. Ah, il romanzo di Murakami è “Audution”, il che obbliga al double-bill con Audition (1999). Chi ha una certa cultura sul cinema di genere ed è attratto da pellicole sui generis saprà trarne qualche diletto.

TRIVIA

Nicolas Pesce (1990) dixit: “Ho sempre la sensazione che il pubblico europeo tenda a capire un po' di più quello che faccio. Credo che una parte di questo abbia a che fare con il fatto che cito film europei. Gli italiani hanno una conoscenza molto più profonda dei film italiani degli anni Settanta rispetto agli americani, quindi avranno più riferimenti. […] Il mio obiettivo è fare qualcosa che sia un mashup di cultura cinematografica. (slashfilm.com).

⟡ Nessun dato, per ora.

Titolo originale

Id.

Regista:

Nicolas Pesce

Durata, fotografia

81', colore

Paese:

USA

Anno

2017

Scritto da Exxagon nell'anno 2020; testo con licenza CC BY-NC-SA 4.0

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