la Casa dalle finestre che ridono

Voto:

Stefano (Lino Capolicchio) è un giovane artista che arriva in un villaggio della Pianura Padana con il compito di restaurare un inquietante affresco realizzato dal misterioso Legnani. Molto presto, le cose iniziano a volgere al peggio e Stefano riceve telefonate anonime che gli intimano di allontanarsi dal paese. Stefano non molla e decide di scoprire il mistero connesso all'affresco e al passato di Legnani.

LA RECE

Insieme a Profondo Rosso di Argento, l'apice del giallo all'italiana. Avati dà vita all'anti-gotico con una Pianura Padana soleggiata ma nascostamente sinistra e corrotta. Must assoluto.

Primo horror di Pupi Avati nato, strumentalmente, per tornare sul binario del successo di pubblico dopo le delusioni incassate con la Mazzurca del barone, della santa e del fico fiorone (1975) e Bordella (1976). Costato 150 milioni di lire alla neonata AMA (Avati-Minervini-Avati) e girato in cinque settimane con un set abitato da familiari ed amici, la Casa dalle finestre che ridono prende le distanze dalle consuetudini gialle sia Sixty sia argentiane, e finisce per diventare uno dei capolavori indiscussi del giallo all'italiana. Summa del cinema di paura avatiano, sul podio insieme a Profondo rosso (1975) di Argento relativamente al sottogenere d'appartenenza, la Casa dalle finestre che ridono è una pellicola di costante e strisciante insalubrità. La collocazione del movente orrorifico al di fuori di una psicopatologia traumatica di stampo argentiano, o delle motivazioni pecuniarie tipiche del giallo più vecchio, riflette la peculiare ispirazione che Avati trae da proprie storie personali, dalla leggenda popolare e anche da "Sette storie gotiche" (1934) di Karen Blixen. L'incipit offre una delle sequenze più inquietanti commesse su pellicola, nella quale si osserva il supplizio di un ragazzo che viene accoltellato mentre la voce di Legnani, artista maledetto sul vago ricalco di Ligabue, recita una sorta di poesia di sangue e violenza in un italiano imbastardito dal dialetto. Quindi, il film si apre ai territori più cari al regista, quelli della Pianura Padana agreste e amica, la cui solarità allontana sia i vecchi ambienti gotici, sofferenti e cimiteriali, sia gli oscuri cubicoli e vialetti urbani, location di tanto giallo argentiano. Buona parte dell'inquietudine si genera, in effetti, dall'attrito fra l'ambiente anti-gotico padano e l'angoscioso mistero che monta e avviluppa tutti gli abitanti di un omertoso paese, per giungere a un finale profondamente disturbante quasi raggiunto, ma non superato, dall'altro grande anti-gotico di Avati (Zeder, 1983). La Casa dalle finestre che ridono inquieta fin dal titolo e non smette di farlo da decine di anni perché la sua solidità si basa sia su un plot intrigante, sia su fattori inconsciamente perturbanti quali i disegni e il trauma del "gender", ai quali si aggiungono le classiche telefonate minatorie con voce inquietante, l'indagine del singolo, filastrocche, l'omertà degli astanti e una Chiesa classicamente depositaria di memorie sepolte. Alcune piccole pecche, come una recitazione non sempre all'altezza da parte dei comprimari e una certa lentezza narrativa se assuefatti a un cinema ipercinetico, vengono ampiamente compensate da uno sviluppo degli eventi che non conosce mai caduta di tono e che porta la storia su lidi progressivamente malsani, facendo sentire la presenza di un protagonista materialmente assente, il pittore Legnani, di cui tutti sanno qualcosa e di cui tutti non vogliano sapere nulla. Pennellata finale, la bellezza acqua e sapone di Francesca Marciano che miglior fortuna avrà come sceneggiatrice. Il film, ai suoi tempi, ricevette pochi riconoscimenti o, comunque, meno del meritato; il tempo, galantuomo, ha dimostrato il suo valore, e oggi il lavoro di Avati gode della stima non solo dei fan dell'horror ma anche dei cinefili generalisti, poiché è davvero difficile, e colpevole, non riconoscere i meriti di questa pellicola perfetta nel suo genere, nonché la sua attuale capacità d'inquietare lo spettatore anche a spettacolo concluso.

TRIVIA

Giuseppe "Pupi" Avati (1938) dixit: "Ero un fallito. Avevo una moglie e due figli. Ero senza lavoro, squattrinato. Rimasi il solo a credere nel cinema. Mi dicevano: "Vuoi fare il regista tu, eh?!". E poi giù con le pernacchie. Scappai di lì [Bologna] e fuggii con la famiglia a Roma per conquistare almeno l'indifferenza della gente. [...] Vivevamo con quello che mi dava mia madre, senza elettricità e telefono, con una pila di bollette da pagare. L'unico piacere che ci potevamo permettere era raccogliere i mozziconi di sigarette nei posaceneri per fumarli alla sera. Durò quattro anni. Dopodiché, per una combinazione miracolosa, un mio copione finii nella valigia di Ugo Tognazzi che lo lesse e mi telefonò: "Io voglio fare il protagonista di questo film". Lì cambiò tutto" (huffington-post.it).

⟡ Al film, inizialmente, era stato attribuito il titolo Blood relations e, successivamente, la Luce del piano di sopra

⟡ La storia ha origine dal ritrovamento di un cadavere rinvenuto vicino all'abitazione di Avati. 

⟡ li film fu girato nei giorni in cui il Friuli fu colpito da un devastante terremoto, la stessa troupe fu sorpresa e spaventata dalle scosse telluriche.

⟡ La mano che si appoggia all'albero alla fine del film è quella del regista. Il finale potenzialmente conciliante, con l'arrivo della polizia segnalato dal suono delle sirene, venne imposto dalla distribuzione.

⟡ Avati aveva collaborato con Argento alla stesura del soggetto di Profondo rosso, e ingaggiò Capolicchio che, in effetti, avrebbe dovuto essere il protagonista della pellicola argentiana, poi sostituito da Hemmings. 

⟡ Alla stesura della sceneggiatura cooperarono, seppur marginalmente, Maurizio Costanzo e l'attore Gianni Cavina, nel film Coppola.

Regista:

Pupi Avati

Durata, fotografia

110', colore

Paese:

Italia

Anno

1976

Scritto da Exxagon nell'anno 2005; testo con licenza CC BY-NC-SA 4.0

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