the Living and the dead

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Voto:

Donald (Lloyd Pack) è proprietario di un maniero ma ha grossi problemi finanziari ingigantiti dalla malattia cronica della moglie Nancy (Kate Fahy) e dal figlio James (Leo Bill), ritardato mentale. James prova di tutto per fare una buona impressione ai propri genitori e, quando il padre si reca a Londra per cercare finanziamenti, l'occasione è perfetta per dimostrare che sa occuparsi della propria madre.

LA RECE

Non un film perfetto e anche sì ostico, tuttavia l'intento di dipingere una dimensione psicologica deragliata (e, per estensione del concetto, orrorifica), in un set da old dark house, coglie nel segno.

Pellicola dalla storia produttiva particolare. L'idea base deriva dal trauma patito dal regista nell’aver visto sua madre morire di cancro. Il tumore fu diagnosticato nel dicembre 2001 e, nel marzo 2002, la signora morì esattamente il Giorno della Mamma; una coincidenza che il regista ha definito perversa. Come se non bastasse, tre mesi prima, il padre di Simon Rumley era morto per un attacco di cuore. Il regista ricorda come guardasse sua zia che si prendeva cura della sorella in fin di vita, ed anche la zia non stava granché bene, tanto che iniziò a pensare di essere l'unico vivo in una casa di morti; perciò, il primo titolo a cui pensò Rumley fu the Living in the home of the dead. Come si può presagire leggendo queste note biografiche, la pellicola porta con sé una grossa dimensione di dramma umano e, se di orrore si tratta, non è quello che potrebbe far intuire il titolo che echeggia Romero; nessun morto vivente, qui, se non la serenità familiare. Rumley dirige un film che ha il sentore dell'horror, ne possiede alcuni elementi fra cui il sangue, comunque molto contenuto ma, come spesso accade nel cinema britannico, l'horror è parte dell'equazione che spiega la vita invece di essere un doloroso evento esterno ad essa. Lento nella prima parte, psicotico nella seconda: un po' Spider (2002) di Cronenberg, qualche cenno di Kubrick e Peter Greenaway, di certo qualcosa di Che fine ha fatto baby Jane? (1962) per la donna legata al letto, la sedia a rotelle, un "infermiere" dalla mente disturbata e un telefono alla fine della scala. Il regista parla anche di Lynch e Becket: "Ho scritto originariamente il pezzo come fosse un incubo; assurdo e surreale, disturbante e, a tratti, volontariamente illogico. Volevo ricreare visivamente l'orrore e l'incertezza, l'inferno sulla Terra, quello in cui sono incappato, l'irrealtà, il trauma, la confusione, così tante cose diverse in momenti così differenti. Lo script era in parte Lynchiano, in parte Beckettiano, in parte accessibile e in parte inaccessibile" (simonrumley.com). Allo spettatore arriva con esattezza tutto ciò che ha voluto trasmettere il regista: nella prima parte il film procede con una certa linearità, freddo come la casa in cui si svolge, ma quando la madre e il figlio si trovano da soli nell’abitazione, la linearità e la razionalità del racconto iniziano a frammentarsi come la psiche del povero James; le riprese, il montaggio e lo score musicale cominciano, allora, a immedesimarsi con la mente del protagonista. Per lo spettatore, questo momento coincide con la parte difficile da digerire: diversi hanno accusato the Living and the dead di essere arty, quel genere di pellicola supponente che usa visioni complesse per darsi arie da film impegnato. È fuori di dubbio che se si vuole penetrare con la logica ciò che logico non vuole essere, allora si crea una frattura quasi insanabile fra narrazione e ascoltatore. Qui, tuttavia, non si tratta di narrazione ma di visione, di suggestioni psicologiche o, ancor peggio, psicotiche. La bizzarria di Rumley non è sperimentalismo fine a se stesso: il regista voleva descrivere la psicosi e, inevitabilmente, costruisce un racconto frammentato come l'Io del protagonista. The Living and the dead non è un capolavoro, però è un film fatto con tecnica, testa e cuore, tre elementi che si percepiscono pienamente. Menzione d'onore per l'attore Leo Bill che interpreta in maniera convincente e completa un soggetto con un disturbo mentale severo. Non meno bravi gli altri due interpreti. Come spesso accade nel cinema inglese, l'ambientazione è un ulteriore personaggio del film: l'arredo spoglio e vecchio, contrapposto a una piccola foto che incornicia un passato sereno, prefigura il dramma e l'orrore a venire. Comunque, pellicola non immediata e potenzialmente ostica per i più.

TRIVIA

Simon Rumley (1970) dixit: “La gente sottolinea sempre quanto siano oscuri i miei film ma, in realtà, non sono più oscuri di qualsiasi altro film horror. Mi piace pensare che sia l'esecuzione e l'intensità di ciò che creo a farli percepire molto più scuri e inquietanti della media” (birthmoviesdeath.com).

⟡ Il regista avrebbe voluto girare il film a Luton Hoo, più nota come location del film Gosford park (2001), ma, al tempo, era stata chiusa alle riprese cinematografiche, così si dovette accontentare della Tottenham House di Savernake (Wiltshire, UK) della quale usò solo 8 delle 250 stanze di cui è composta. La Tottenham House, durante la Prima Guerra Mondiale, fu usata come ospedale, poi come collegio maschile e, dopo ancora, come centro di riabilitazione per tossicodipendenti. Si dice che nell'enorme magione alberghino tre fantasmi: quello di un'anziana donna, di un bambino e di un soldato. Poco prima che iniziassero le riprese, i proprietari della Tottenham House, la famiglia Cardigan, ha venduto l'usufrutto a una compagnia americana che ne farà un hotel di lusso con un campo da golf a 18 buche. Con il bene placido dei tre fantasmi.

⟡ Il film è dedicato ai genitori del regista: David e Sheila.

Titolo originale

Id.

Regista:

Simon Rumley

Durata, fotografia

83', colore

Paese:

UK

Anno

2006

Scritto da Exxagon nell'anno 2011; testo con licenza CC BY-NC-SA 4.0

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