Regista, coreografa, etnografa
Maya Deren: la sacerdotessa del cinema che danzò tra sogno e maledizione
Esistono artisti che si limitano a produrre opere, e altri che diventano essi stessi l'opera. Maya Deren appartiene inequivocabilmente alla seconda categoria: regista, coreografa, teorica del cinema, etnografa del voodoo haitiano, figura ammantata di un'aura mistica che ancora oggi avvolge il suo nome come un sudario di celluloide. In soli diciotto anni di carriera, questa donna dalle fattezze esotiche e dallo sguardo penetrante ha ridefinito i confini del possibile cinematografico, lasciando un'eredità che continua a riverberare da David Lynch a Darren Aronofsky, passando per chiunque abbia osato esplorare i territori dell'inconscio attraverso l'immagine in movimento.
Da Kiev a Hollywood: l'esilio come destino
Eleonora Derenkovskaya nacque a Kiev il 29 aprile 1917, in quella breve finestra temporale tra la Rivoluzione di Febbraio e quella d'Ottobre che avrebbe trasformato per sempre l'ex Impero Russo. Il padre, Solomon Derenkovskij, era uno psichiatra di formazione, circostanza che avrebbe lasciato tracce profonde nell'immaginario della figlia, ossessionata per tutta la vita dai meccanismi della mente e dalla sua rappresentazione visiva. Nel 1922, quando Eleonora aveva appena cinque anni, la famiglia fuggì dall'Unione Sovietica, stabilendosi prima a Syracuse, nello stato di New York, dove il cognome venne americanizzato in Deren.L'adolescente Eleonora - che aveva già iniziato a farsi chiamare Maya, dal termine sanscrito che indica l'illusione del mondo materiale, ma anche dalla dea greca Maia, madre di Hermes - si rivelò una studentessa brillante e irrequieta. Si laureò in giornalismo alla Syracuse University nel 1936, proseguì gli studi alla Smith College e, infine, conseguì un master in letteratura inglese alla New York University. Un percorso accademico impeccabile che, tuttavia, non le bastava: Maya era attratta dalla danza, dalla poesia, dal socialismo, da tutto ciò che prometteva di sovvertire l'ordine costituito delle cose.
Tre mariti, tre vite
Nel 1935, appena diciottenne, Maya sposò Gregory Bardacke, un attivista del Partito Comunista americano. Fu un matrimonio breve e turbolento che si concluse con il divorzio nel 1939. Ma l'esperienza le aveva insegnato qualcosa di prezioso: il potere dell'impegno politico e la capacità di vivere ai margini della società borghese senza mai perdere la propria identità.
Nel 1941 Maya incontrò la figura che avrebbe cambiato per sempre la sua traiettoria artistica: Alexander Hammid, nato Alexander Siegfried Georg Smahel in Cecoslovacchia, documentarista di talento che aveva anglicizzato il proprio nome l'anno precedente. Hammid era un tecnico raffinato, un artigiano dell'immagine che possedeva quella competenza pratica che a Maya mancava. Si sposarono nel 1942 e, l'anno seguente, realizzarono insieme Meshes of the Afternoon, il cortometraggio che avrebbe fatto esplodere il cinema sperimentale americano. Girato nel loro appartamento di Los Angeles con un budget irrisorio, questo film di quattordici minuti condensava l'essenza dell'esperienza onirica in immagini di una potenza ancora oggi sconcertante: Maya che insegue una figura incappucciata dal volto di specchio, chiavi che diventano coltelli, il tempo che si avvolge su se stesso come un nastro di Möebius. Il matrimonio con Hammid durò fino al 1947, abbastanza per produrre altri capolavori come At Land (1944) e Ritual in Transfigured Time (1946), ma non abbastanza per sopravvivere all'ego divorante di Maya, che aveva bisogno di liberarsi da qualsiasi ombra maschile per affermarsi come autrice autonoma. Hammid, per inciso, avrebbe vissuto una lunga e serena esistenza, spegnendosi alla veneranda età di 96 anni il 26 luglio 2004.
Il terzo e ultimo matrimonio di Maya fu anche il più controverso. Nel 1955, ormai quarantatreenne, si innamorò di Teiji Ito, un musicista giapponese che all'epoca aveva appena quindici anni. L'enorme differenza d'età fece scandalo anche nei permissivi ambienti bohémien di New York, ma Maya non se ne curò minimamente. Ito divenne il suo compagno di avventure, il compositore delle colonne sonore dei suoi film e, infine, nel 1960, suo marito. Fu lui ad accompagnarla ad Haiti, dove Maya rimase letteralmente stregata dalle pratiche voodoo che avrebbe documentato per anni con la sua cinepresa.
Il cinema verticale: scavare invece di raccontare
Maya Deren non era interessata a raccontare storie. Questa affermazione, apparentemente banale, costituisce, in realtà, una rivoluzione copernicana nel modo di concepire il cinema. Mentre Hollywood perfezionava la grammatica della narrazione lineare - tesi, antitesi, sintesi - Maya teorizzava e praticava quello che definiva "cinema verticale": un'arte che scava in profondità anziché procedere in orizzontale, che esplora stati d'animo invece di concatenare eventi. «Il film poetico», scriveva, «abbandona la logica drammatica per la logica delle immagini».
I suoi cortometraggi - la filmografia completa non supera i quarantacinque minuti totali, escludendo il materiale haitiano - funzionano come sogni a occhi aperti, dove oggetti quotidiani acquistano significati perturbanti e il corpo umano diventa strumento di una coreografia metafisica. In Meshes of the Afternoon una chiave si trasforma in coltello, un fiore viene deposto su un cuscino come un'offerta sacrificale; in At Land Maya striscia lungo un interminabile tavolo da pranzo mentre i commensali conversano ignari della sua presenza; in Ritual in Transfigured Time le convenzioni sociali di un cocktail party si dissolvono in una danza improvvisata che annulla i confini tra realtà e rappresentazione. È un cinema che sembra anticipare tanto la nouvelle vague francese quanto le derive oniriche di Lynch.
Haiti, il voodoo e le voci della maledizione
Nel 1947, grazie ad un finanziamento offerto dal Guggenheim - fu la prima donna a riceverla per un progetto cinematografico - Maya si recò ad Haiti per documentare le danze rituali voodoo. Quello che doveva essere un soggiorno di alcuni mesi si trasformò in un'ossessione che durò quasi un decennio. Maya non si limitò a osservare: partecipò attivamente ai rituali, venne iniziata ai misteri della religione voodoo, ospitò cerimonie di danza nel suo appartamento di New York. Il materiale filmato sarebbe confluito nel documentario Divine Horsemen: The Living Gods of Haiti, completato però solo nel 1985, più di vent'anni dopo la sua morte, grazie al lavoro di Teiji Ito e della sua seconda moglie Cherel Winett Ito.
Fu proprio questa immersione nel mondo del voodoo ad alimentare le voci più sinistre sulla figura di Maya. Il suo ultimo film completato, The Very Eye of Night (1958), subì ritardi interminabili a causa di problemi finanziari. Maya attribuì la colpa al suo finanziatore, il paroliere John La Touche, e quando questi morì prematuramente nel 1956 a soli 38 anni, iniziarono a circolare sussurri inquietanti: la Deren avrebbe scagliato contro La Touche una maledizione voodoo. Dicerie, probabilmente, alimentate dalla fascinazione che Maya stessa coltivava per la propria immagine di sacerdotessa dell'occulto. Ma il destino, come vedremo, avrebbe riservato a lei stessa un finale altrettanto misterioso.
Venerdì 13 ottobre 1961: quando il cerchio si chiude
Nell'autunno del 1961, Maya e Teiji Ito si recarono nel New England: il padre del giovane musicista era morto e Teiji doveva reclamare la propria eredità. Ma la famiglia di lui si oppose fermamente, tentando di bloccare la richiesta. Quando Maya venne a conoscenza di questa opposizione, il suo organismo, già provato da anni di eccessi e fragilità, cedette. Ebbe un colpo apoplettico, entrò in coma e non si risvegliò più.
Morì venerdì 13 ottobre 1961, a soli 44 anni. La data non sfuggì a coloro che conoscevano la sua fascinazione per il simbolismo: venerdì 13, il giorno della sfortuna per eccellenza nella tradizione occidentale. Alcuni, tra gli amici di John La Touche, suggerirono che si trattasse di una contro-maledizione, di un ritorno karmico della magia nera che Maya aveva imprudentemente evocato. La spiegazione più prosaica, e probabilmente più veritiera, punta invece verso le famigerate "iniezioni vitaminiche" che la regista assumeva regolarmente: cocktail di anfetamine che all'epoca venivano prescritti con leggerezza criminale e che, nel lungo periodo, devastavano il sistema cardiovascolare.
Quale che sia la verità, Maya Deren venne cremata e le sue ceneri furono affidate a Teiji Ito, che le sparse sulle pendici del Monte Fuji in Giappone. Un gesto poetico e definitivo, che restituiva alla donna ucraina-americana-haitiana-newyorkese una nuova patria, l'ennesima, nell'aria rarefatta di una montagna sacra dall'altra parte del mondo.
L'eredità: quando quattordici minuti bastano a cambiare tutto
Maya Deren non fu la prima a fare cinema sperimentale, ma fu la prima a teorizzarlo con lucidità e a praticarlo con coerenza ossessiva. I suoi scritti - raccolti nel volume Essential Deren - costituiscono ancora oggi una lettura fondamentale per chiunque voglia comprendere le possibilità espressive dell'immagine in movimento. La sua influenza si estende ben oltre i confini del cinema d'avanguardia: senza Meshes of the Afternoon è difficile immaginare Persona (1966) di Bergman, Repulsion (1965) di Polanski o Eraserhead (1977) di Lynch.
Forse il suo lascito più prezioso è la dimostrazione che il cinema non ha bisogno di milioni di dollari, di studi di produzione, di star hollywoodiane per toccare le corde più profonde dell'animo umano. Bastano una cinepresa, un appartamento, alcuni oggetti quotidiani e la volontà di guardare dentro di sé senza paura. Maya Deren guardò, e ciò che vide continua a perseguitarci, ottant'anni dopo, ogni volta che ci abbandoniamo a un pomeriggio soleggiato e, chiudendo gli occhi, scopriamo che il confine tra veglia e sogno è molto più sottile di quanto vorremmo credere.
Eleonora Derenkovskaya
Kiev, Ucraina (Impero Russo), 29/04/1917
New York City, New York, USA, 13/10/1961
Scritto da Exxagon nel dicembre 2025; testo con licenza CC BY-NC-SA 4.0